Viscosa. Spesso facciamo l’errore di considerarla un tessuto naturale, invece si tratta di una fibra estratta dalla cellulosa vegetale, poi sottoposta a trattamenti chimici che la rendono ciò che è ovvero un materiale artificiale. Infatti a inventarla è stato proprio un chimico, Hilaire de Chardonnet, che la presentò all’Esposizione Universale di Parigi del 1889; inizialmente definita ‘seta artificiale’ o ‘seta Chardonnet’, è stata poi ben distinta da essa anche per il suo valore economico (la viscosa è stata infatti creata per rispondere alla richiesta di tessuti simili alla seta ma ben più economici).
C’è una fondazione inglese, Changing Markets, che è stata costituita per accelerare e potenziare le soluzioni sostenibili sfruttando il potere dei mercati; lavorando in partnership con ONG e altre fondazioni e organizzazioni di ricerca, crea e supporta campagne mirate a spostare le quote di mercato da prodotti e aziende non sostenibili verso soluzioni benefiche per l’ambiente e la società. Per fare ciò, la fondazione ritira il proprio sostegno alle aziende non virtuose, certa che, applicando il modello su vasta scala, si possa creare un ciclo accelerato di cambiamenti positivi che si autoalimentano nei mercati globali, cambiamenti definiti dalle aziende più orientate alla sostenibilità che ‘costringono’ le altre a convertirsi alle buone pratiche.
Un anno fa Changing Markets ha lanciato la campagna ‘Dirty Fashion: on track for transformation’, per valutare i progressi fatti fino a oggi dalle aziende di abbigliamento e dai produttori di viscosa nel passaggio verso un tipo di viscosa prodotta responsabilmente. E ciò che emerge dal report è che solo fino a un anno fa c’era poca conoscenza dell’impatto ambientale e sociale della sua produzione e che l’attenzione era più concentrata sull’approvvigionamento di legname da utilizzare per ottenere la polpa
che è la materia prima per la maggior parte delle viscose. In questo senso molti produttori, in collaborazione con la Ong Canopy, si erano impegnati a fermare l’approvvigionamento di polpa dalle foreste antiche e in via di estinzione. Altri, attraverso iniziative come ‘Detox’ di Greenpeace, avevano preso provvedimenti per eliminare gradualmente l’uso di sostanze tossiche nella tintura e nella finitura dei tessuti. Tuttavia, quasi senza eccezioni, i marchi e i rivenditori avevano trascurato di affrontare una parte fondamentale della filiera produttiva, cioè quella relativa all’inquinamento delle comunità che vivono all’ombra delle fabbriche di viscosa.
A seguito di indagini sul campo in India, Indonesia e Cina, è risultato che le aziende
fornitrici di viscosa scaricassero le acque reflue non trattate in laghi e corsi d’acqua; lo scolo tossico nei fiumi vicino alle fabbriche stava distruggendo l’agricoltura di sussistenza ed era anche collegato a una maggiore incidenza di malattie gravi come i tumori nelle popolazioni locali. Senza contare la mancanza di accesso all’acqua potabile e agli odori disgustosi che rendevano la vita insopportabile.
Da allora sette rivenditori hanno accettato di passare a una produzione responsabile di fibra di viscosa, invitando al contempo i propri fornitori a ‘convertirsi’ a un sistema produttivo a ‘ciclo chiuso’, che garantisce cioè il controllo delle emissioni e i tassi di recupero chimico in linea con le migliori tecniche disponibili in Unione Europea. Due dei maggiori produttori mondiali di viscosa, Lenzing e Aditya Birla Group, si sono impegnati a realizzare investimenti concreti per ripulire la produzione e hanno iniziato a lavorare per rendere tutti i loro siti conformi ai requisiti della Roadmap creata da Changing Markets.
Tutti i passaggi di questi cambiamenti, con ulteriori informazioni, si trovano all’interno del rapporto disponibile sul sito della fondazione; naturalmente i piani stesi dalle aziende per intraprendere questo percorso virtuoso devono essere attuati e in questo senso, non solo i produttori stessi ma anche i marchi e la società civile continuano a rivestire un ruolo chiave, i primi per il loro impegno con i fornitori di viscosa, la seconda per mantenere la pressione sull’industria della moda affinché diventi sempre più trasparente e responsabile in tutta la sua catena di approvvigionamento.