È uscito di recente il Fashion Transparency Index 2023, il report di Fashion Revolution che ogni anno fa il punto sul livello di trasparenza dei brand internazionali, per la precisione 250 marchi, riguardo a tutti gli aspetti della sostenibilità, dagli impatti ambientali a quelli sui diritti dei lavoratori.
L’anno scorso avevamo constatato come l’impegno dei brand fosse troppo lento, con solo il 24% impegnato nel fornire informazioni sulle proprie catene di fornitura e sulle politiche aziendali.
Quest’anno le cose non sono cambiate di molto; quel dato lì è salito solo di 2 punti arrivando al 26% e dei 250 marchi esaminati, ben 70 hanno un punteggio che oscilla tra lo 0 e il 10% ma di buono c’è che i brand del lusso hanno cominciato a collaborare, rendendo pubblici gli elenchi dei propri fornitori. E proprio uno di loro, uno dei più importanti, compare per la prima volta tra quelli con il punteggio più alto, l’80%: Gucci.
Già in tempi non sospetti avevamo parlato di Gucci come di una fashion corporation impegnata nella sostenibilità e, complice il gruppo Kering di cui fa parte, la strada verso una sempre maggiore trasparenza è stata ampiamente tracciata.
Per seguire il percorso virtuoso della maison, da qualche anno c’è il portale Gucci Equilibrium (che avevamo già segnalato, sempre in tempi non sospetti) dedicato a spiegare e fornire aggiornamenti sulle sue best practice sociali e ambientali e dove trovate pubblicato anche il Gucci Equilibrium Impact Report 2022.
Un altro marchio che compare in cima alla classifica con l’83% del punteggio (rispetto al 78% del 2022) è Oviesse, confermando le buone intenzioni dell’anno scorso, in cui già risultava ai primi posti. È un’ottima notizia per diversi motivi: perché è un marchio italiano e su 250 internazionali esaminati, dà il buon esempio, perché è un brand storico, nato a Padova nel ’72 e che è arrivato a oggi con non poche traversie, dimostrando che è con il cambiamento positivo che si ottengono dei risultati. E poi perché è una firma popolare, un grande magazzino low cost che sta salendo di gamma, aprendosi a collaborazioni con altri creativi ma mantenendo al contempo lo stile italiano con un certo gusto. E, appunto, impegnandosi su tutti i fronti della sostenibilità.
Il suo virtuoso 83% di quest’anno lo testimonia con miglioramenti in quattro delle cinque aree analizzate dal Fashion Transparency Index: Policy and Commitments, Governance, Know, Show and Fix, Spotlight Issues. Le prime due riguardano l’accessibilità delle policy aziendali in materia di sostenibilità e la descrizione dei processi aziendali a supporto, le altre due valutano la chiarezza nel raccontare le azioni attivate in risposta ai fattori di rischio ambientali e sociali.
Quest’anno il gruppo ha pubblicato, tra gli altri, i dati relativi alle emissioni di CO2 e all’utilizzo di acqua dei fornitori, ha dichiarato gli obiettivi destinati a supportare sistemi di rappresentanza dei lavoratori e ha condiviso i piani di intervento con cui ha affrontato alcune criticità nella catena di fornitura.
Sulla qualità dei capi, io stessa ho constatato un costante miglioramento; certo, per mantenere i prezzi ‘bassi’, lo stesso CEO Stefano Beraldo ha ammesso di optare per materiali meno costosi e margini più bassi ma è stata anche ridotta la quantità dei capi prodotti all’ultimo, con un’attenzione maggiore alla qualità.
Nel negozio fisico, quando capito, tocco sempre i tessuti, leggo le etichette e, se acquisto un capo, in quello online ho la possibilità di avere maggiori informazioni in proposito, tra cui come averne cura, l’eco valore, ovvero il consumo d’acqua, le emissioni di CO2 e la circolarità, la trasparenza.
È vero, non è tutto ma è tanto, considerando che ci sono molti brand che fanno pagare a peso d’oro i propri prodotti e/o si tacciano di virtuosismi vari e poi di concreto non fanno nulla, oltre ad avere catene di fornitura intricate come ragnatele.
Per leggervi per intero il Fashion Transparency Index, andate a questo link.