di Mariangela ‘Angie’ Bonesso
La tentazione è forte, specie con l’arrivo della bella stagione: aprire l’armadio e disfarsi del cosiddetto ‘superfluo’. Un indumento ormai fuori taglia o volutamente dimenticato sul fondo di un cassetto insieme al motivo per cui l’abbiamo comprato.
Scatta la leva del decluttering consapevole: mettiamo ordine fra usurato e buono stato, smistiamo ciò che può essere regalato o scambiato, fino a quando ci capita di nuovo tra le mani quel capo dismesso ma che sopravvive indenne a ogni rivoluzione del nostro armadio, per valore affettivo o perché il tessuto è di buona qualità.
Un’alternativa al lasciarlo perennemente inutilizzato nel guardaroba c’è ed è pure sostenibile: affidarsi all’upcycling, pratica sempre più consolidata nella moda, che investe sul riutilizzo creativo degli indumenti in disuso, salvaguardando l’ambiente e scoraggiando l’impulso a nuovi acquisti.
Se con il vintage e, più in generale, con il second hand abbiamo compreso quanto sia importante allungare la vita di un abito, in termini di benefici ambientali ed economici, con l’upcycling lo spreco è azzerato grazie al design che reinventa il capo.
Un servizio innovativo e on demand, disponibile in tutta Italia, lo offre Menabòh, start up di moda responsabile fondata da Gaia Rialti e concepita inizialmente come e-commerce di capi vintage rigenerati e pezzi unici di designer indipendenti. L’upcycling proposto da Menabòh conta su un network vario di esperti, studenti di scuola di moda, sarti e artisti specializzati in riciclo creativo con interventi di pittura, ricamo, riparazioni.
Una volta entrati nel sito, si individua il designer di preferenza cui inviare la foto del capo da trasformare, compilando anche un semplice questionario con alcune informazioni utili. In circa due giorni lavorativi si riceve la prima proposta di upcycling: se il progetto non piace, si può richiedere una seconda proposta. Quando il cliente approva l’idea, si procede al pagamento e all’invio del capo per la trasformazione che necessita, indicativamente, di quattro giorni lavorativi. I costi degli interventi sono consultabili nei profili dei designer, mentre ritiro e consegna dei capi sono gestiti direttamente da Menabòh.
Come spiega Gaia Rialti “il target di pubblico interessato all’upcycling tende a essere composto da individui consapevoli dell’ambiente e orientati verso uno stile di vita sostenibile, oltre a coloro che apprezzano l’originalità dei capi upcycled: la consapevolezza sull’importanza della riduzione degli sprechi si diffonde sempre di più e trova valore in questo processo creativo“.
Nonostante sia indubbia la sua importanza per lo sviluppo di un’economia circolare, l’upcycling ha posto inevitabilmente una serie di interrogativi sui diritti di proprietà intellettuale, soprattutto quando la trasformazione riguarda prodotti di brand particolarmente riconoscibili. Le pratiche commerciali scorrette sono da perseguire ma è altrettanto importante non penalizzare, per sole logiche di profitto, i vantaggi dell’upcycling, primo tra tutti la riduzione della quantità di rifiuti.
Come sottolinea la fondatrice di Menabòh, “un’applicazione rigida della tutela dei marchi potrebbe limitare l’innovazione e la pratica sostenibile dell’upcycling. È cruciale trovare un equilibrio tra la protezione dei diritti di proprietà intellettuale e la promozione dell’economia circolare per affrontare le sfide ambientali“.
E, aggiungiamo noi, se il cliente si sente parte attiva di un grande cambiamento a partire da un piccolo gesto, come il recupero creativo di un abito dismesso, anche la sostenibilità diventa un po’ meno concetto e un po’ più realtà.
Le immagini sono courtesy Menabòh