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Moodìa, l’umore sartoriale per ogni corpo di donna

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Moodìa Collezione 'Vivian' - FW 18/19 - foto di Gaia Marconi

Quando la primavera scorsa siamo state a Milano a ‘Fa la cosa giusta!‘, Moodìa è stato uno dei marchi che ci è piaciuto di più, sia per la raffinata sobrietà dei capi sia per il bel gruppo tutto al femminile che ci ha accolto presso lo stand. Ci eravamo così ripromesse di dedicargli un post e oggi eccoci qua.

Manuela Orsucci al lavoro – foto di Chiara Fortunati

Piccola ma grintosa maison di moda sartoriale, Moodìa è stata fondata circa dieci anni fa da Manuela Orsucci, designer con un passato da restauratrice d’arte e una mamma sarta che le ha trasmesso l’amore ma anche la manualità per questo mestiere. Già molto prima di Moodìa e dell’Accademia di moda, che ha frequentato in età adulta per completare le proprie conoscenze in merito a progettazione, disegno e tecniche della modellistica, Manuela realizzava capi d’abbigliamento su commissione, quindi la fondazione del marchio è apparsa quasi come una tappa ‘obbligata’ del percorso.

E l’attenzione per l’universo femminile e le sue mille sfaccettature c’è già tutto nel nome, Moodìa come ‘mood’, uno stato, un modo di essere, inclinazioni e ispirazioni racchiuse nella personalità di ogni donna che si traducono in un ‘umore sartoriale’ creato per essere indossato in modo mutevole, secondo il proprio stile. Quindi non pezzi dettati dalle tendenze del momento, non omologazione e serialità ma unicità, concretezza e versatilità.

Manuela al lavoro

I capi, ideati e lavorati principalmente nel laboratorio di Manuela a Monterotondo, in provincia di Roma, prendono forma dalla materia ovvero sono le stoffe, scelte con cura, rigorosamente ‘made in Italy’, e la loro tattilità, insieme a trame, colori e consistenze, a ispirare i modelli di ciascuna collezione che, non è un caso, s’ispira a pittori, fotografi o personaggi di quell’arte che la designer ha respirato nei suoi anni da restauratrice.

E i giochi di sovrapposizioni e di asimmetrie, che caratterizzano lo stile del marchio, sono anche quelli che più ci avevano colpito a Milano; capospalla che richiamano i kimono, da legare in vita con fusciacche morbide, abiti e pantaloni ampi e insieme avvolgenti, abiti fluidi che accarezzano con garbo le linee del corpo. Ma anche dettagli inattesi come la giacca asimmetrica Penny dell’ultima collezione ‘Vivian’, in pura lana vergine, che si può portare con il collo che scende sul retro, il davanti accollato e la chiusura laterale oppure fronte come una classica giacca o le camicie con maxi-polsini e colletto anch’esso asimmetrico.

Non è un caso che il messaggio legato a Moodìa sia ‘fatto a mano per te’, perché tutti i capi sono pensati per essere indossati assecondando e adattandosi allo stile di ogni donna, al suo corpo, al suo ‘umore’, poi abbinati e reinventati ogni giorno, anche in base alla concretezza della quotidianità fatta di impegni e ritmi frenetici.

‘Vestimenta’, oltre l’abito, un linguaggio

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Screenshot da 'Vestimenta'

“Le persone hanno dei bisogni e io col mio lavoro mi impegno per soddisfarli“. Mi piace citare le parole di Denise Bonapace, la poliedrica creativa che è stata nostra ospite a febbraio scorso e che vede la moda come un ‘servizio’ alle persone intese come “insieme di fisicità, pensieri, impulsi e desideri“. Tutto ciò per creare un rapporto costante tra l’abito e il corpo che lo abita, un corpo che non deve avere più canoni ne misure, perché la bellezza è, come scriveva Eco, politeistica.

Dell’abito inteso come casa che ospita un determinato corpo plasmandosi su di esso in base alle sue necessità, ne abbiamo parlato anche recensendo il libro ‘Ri-vestire’ di Cristiano Toraldo di Francia e con il post di oggi riprendiamo idealmente il discorso parlando del bel documentario di Denise Bonapace che ha un titolo simbolico e significativo: ‘Vestimenta, abiti abitati’.

Locandina di ‘Vestimenta, abiti abitati’

Inserito e proiettato nella selezione ufficiale di diverse rassegne internazionali, tra cui il ‘Fashion Film Festival Chigago’ e l”Artfools-EcoFashion Film Festival’ di Larissa, in Grecia e presente anche al Sarajevo Fashion Film Festival che si terrà dall’1 dicembre prossimo, ‘Vestimenta, abiti abitati’ è un cortometraggio che parla del significato culturale e sociale dell’abito che, strutturato come un linguaggio, racconta della nostra personalità, dei nostri atteggiamenti e modi di essere.

“L’abito è il primo oggetto che sta intorno al corpo e in quanto tale progettabile” dice Denise Bonapace introducendo il proprio documentario “ha un significato sia sociale sia culturale, attraverso l’abito noi parliamo di noi stessi e quando un designer sceglie un tessuto, un filato, un taglio, un volume, mette in scena il corpo sociale e culturale, tanto quanto uno scrittore sceglie le parole per scrivere un romanzo”.

Screenshot da ‘Vestimenta’

L’ultima collezione di Denise affronta proprio la tematica del dialogo, quello che si instaura tra chi indossa un determinato capo e il capo stesso; si tratta di sei pezzi, ‘Dialoghi d’amore’, che avevamo in parte già illustrato nell’articolo di cui parlavo all’inizio, ispirati a un’immagine dell’artista brasiliana Ligya Clark chiamata ‘Hand Dialogue’ ovvero una fascia elastica che due persone usano per collegare le loro mani in un dialogo tattile. Ecco così che un cardigan zippato presenta un nastro sul polso che può essere indossato come bracciale o per legare la mano di un’altra persona.

 

In ‘Arms dialogue’ invece una manica s’allunga attraverso un inserto a contrasto andando incontro all’altra, mentre ‘Minds dialogue’ detto anche ‘Bacio’ sono due capi uniti da una zip intorno al collo che possono vivere separatamente o insieme.

‘Minds dialogue’ by D.Bonapace – screenshot from ‘Vestimenta’

Si tratta insomma di capi modellabili sul corpo e intorno al corpo, involucri materici che assumono quasi un’esistenza propria quando oltrepassano il ‘sistema’ corpo-abito e si proiettano verso l’esterno instaurando naturalmente (e culturalmente) un dialogo e quindi un rapporto, non solo col corpo che abitano ma anche con il mondo esterno e altre persone.

E a proposito di dialoghi, Denise Bonapace ha poi uno scambio interessante con Benedetta Barzini che, diretta e ironica, riflette sulla moda di oggi, una moda in un certo senso ‘disperata’, in cui il corpo della donna è ancora imprigionato in stereotipi che fanno di lei non più di ‘un oggetto di bellezza’. Da qui la considerazione della Bonapace su una moda costruita per corpi standardizzati, mentre sappiamo bene che i corpi sono tanti, con proporzioni e forme diverse. Che bella sfida sarebbe per un designer poter progettare su corpi veri e diversi, quindi poter davvero sperimentare nuovi tagli e forme!

Denise e B.Barzini – screenshot from ‘Vestimenta’

Ancora una considerazione della Barzini su tante donne designer che progettano con la mentalità maschile ovvero sul ‘rendere sexy’ piuttosto che comoda, a proprio agio. Insomma, tante evoluzioni e cambiamenti nel costume ma certi stereotipi sono duri a morire!

Significativo anche il discorso di Denise Bonapace sul ruolo dell’etichetta, il “rifiuto per antonomasia dell’abito” perché non può essere recuperato; avendo collaborato per anni con Conau, il Consorzio Nazionale Abiti e Accessori Usati, e girato varie aziende dove gli abiti vengono raccolti per essere rigenerati, Denise nota una montagna di etichette messe in un angolo. Da qui nasce l’idea di un abito, ‘Label’, alto 3 metri, realizzato a oggi con circa 1500 etichette; l’intento è quello di condividere e riflettere intorno al valore dell’etichetta, un oggetto tanto importante per ciò che comunica, quanto inutile visto in un’ottica di prodotto.

Abito ‘Label’ – screenshot from ‘Vestimenta’

‘Vestimenta, abiti abitati’ condensa in 12 minuti scarsi un’importante riflessione sulla moda nei suoi significati più profondi e reconditi, significati che vanno ben oltre l’estetica e toccano aspetti sociali, filosofici, semantici e culturali. Non solo; ci fa capire quanto il corpo femminile sia ancora imprigionato in cliché che sacrificano la sostanza a favore di una forma lontana dalla realtà, confinata ai diktat della giovinezza, della magrezza, dell’altezza.

‘Vestimenta’ è anche una sfida, perché no, a questi stereotipi, un richiamo al coraggio di andare oltre, indagando le tante fisicità e i tanti pensieri del genere umano.

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Cortometraggio di Denise Bonapace
Con la partecipazione di Benedetta Barzini
Produzione DESIGNinVIDEO
Direzione, fotografia e montaggio Emilio Tremolada
Contenuti Denise Bonapace

“Dialogues” video crediti Pierluigi Anselmi
“Label” foto crediti Lorenza Davvero

‘Vestimenta’, a language beyond clothing

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Screenshot from 'Vestimenta'

“People have needs and I work to satisfy them”. I like to mention the words of Denise Bonapace, the polyhedric creative who was our guest last February and who sees fashion as a ‘service’ to people understood as “togetherness of physicality, thoughts, impulses and desires”. All this to create a constant relationship between clothing and the body that inhabits it, a body that must not have more canons or measures, because beauty is, as Eco wrote, polytheistic.

We also talked about clothing intended as a house that hosts a certain body molding on it according to its needs by reviewing the book ‘Ri-vestire’ by Cristiano Toraldo di Francia and with the today’s post we ideally go back to this theme, talking about the beautiful documentary by Denise Bonapace, which has a symbolic and meaningful title: ‘Vestimenta, inhabited clothing’.

‘Vestimenta, inhabited clothing’ poster

Screened in the official selection of several international Festivals, including the ‘Fashion Film Festival Chigago’ and the ‘Artfools-EcoFashion Film Festival’ of Larissa, in Greece and also presented at the Sarajevo Fashion Film Festival to be held from 1 December next, ‘Vestimenta, inhabited clothing’ is a short film about the cultural and social significance of clothing that, structured as a language, talks about our personality, attitudes and ways of being.

“The dress is the first object that is around the body and as such it is designed” says Denise Bonapace introducing her own documentary “has both a social and cultural meaning, through the dress we talk about ourselves and when a designer chooses a fabric, a yarn, a cut, a volume, staging the social and cultural body, as much as a writer chooses words to write a novel “.

“Clothing is the closest object to the body and, as such, can be designed” says Denise Bonapace introducing her own documentary “Clothing has both a social and cultural meaning, we talk about ourselves through clothing and when a designer chooses a fabric, yarn, cut, or volume, he/she puts the social and cultural body on stagejust as a writer chooses the words to write a novel”.

Screenshot da ‘Vestimenta’

The latest collection by Denise deals with the theme of dialogue, that which is established between a garment and the the person wearing it; it includes six pieces, ‘Dialogues of Love’, which we had already partly illustrated in that article, arose from ‘Hand Dialogue’ image by the Brazilian artist Ligya Clark, an elastic band that two people use to connect their hands in a tactile dialogue. This is how a zipped cardigan has a wristband that can be worn as a cuff or to tie the hand of another person.

 

In ‘Arms dialogue’ a sleeve is stretched through a contrasting insert going towards the other, while ‘Minds dialogue’ also called ‘Kiss’ are two garments connected by a zip at the neck and can be worn separately or together.

‘Minds dialogue’ by D.Bonapace – screenshot from ‘Vestimenta’

In short, it is about garments that can be modeled on the body and around the body, material envelopes that almost take on an existence of their own when they pass the body-garment system and project outwards, naturally establishing (and culturally) a dialogue and therefore a relationship, not only with the body that inhabits but also with the outside world and other people.

And speaking of dialogues, Denise Bonapace then has an interesting exchange with Benedetta Barzini who, direct and ironic, reflects on today’s fashion, a fashion ‘desperate’ in a certain way, in which the woman’s body is still imprisoned in stereotypes that make her no more than ”an object of beauty”. Hence the consideration of Bonapace on a fashion built for standardized bodies, while we know well that the bodies are many, with different proportions and shapes. What a challenge for a designer to be able to design on real and different bodies, to really experiment and innovate forms and styles!

Denise e B.Barzini – screenshot from ‘Vestimenta’

Another consideration of Barzini on many women designers who design with the male mentality or on ”make sexy” rather than comfortable, at ease. In short, many changes in the costume but certain stereotypes are hard to die!

The speech by Denise Bonapace on the role of the label, the “quintessential waste of the clothing”, is also significant because it can not be recovered; having collaborated for years with Conau, the ‘National Consortium for Used Clothing and Accessories’ and visited several companies where the castoff clothing goes, Denise saw a large cubes of labels placed in a corner. Hence the idea of a dress, ‘Label’, 3 meters high, made today with about 1500 labels; the aim is to expose and reflect around the value of the label, an object so important for what it communicates, as useless seen from a product point of view.

Abito ‘Label’ – screenshot from ‘Vestimenta’

‘Vestimenta, inhabited clothing’ summarises in 12 minutes an important reflection on fashion in its deepest and hidden meanings, meanings that go far beyond aesthetics and touch on social, philosophical, semantic and cultural aspects. Not only; it makes us realize how the female body is still imprisoned in cliches that sacrifice substance in favor of a form far from reality, confined to the diktats of youth, thinness, height.

‘Vestimenta’ is also a challenge, why not, to these stereotypes, a call to the courage to go further, investigating the many physicalities and the many thoughts of mankind.

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Short film by Denise Bonapace
Guest-starring Benedetta Barzini
DESIGNinVIDEO production
Direction, photography and editing by Emilio Tremolada
Contents Denise Bonapace

“Dialogues” video by Pierluigi Anselmi
“Label” photos by Lorenza Davvero

Saneras, l’eleganza italiana in armonia con la Natura

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Saneras FW1819 - courtesy of Saneras

Credo che non sia la prima volta che parlo delle fantastiche connessioni che si creano grazie a questo blog, una sorta di sorprendente effetto domino in cui un designer richiama un brand che ne richiama un altro che a sua volta introduce un evento, una fiera, una fashion week, in cui scopro un altro marchio e così via.

Siliana e Serena Arena di Saneras – courtesy of Saneras

Con Saneras è successo così. Tra i brand che hanno partecipato all’ultima Helsinki Fashion Week, mi ha colpito questo nuovissimo marchio italiano ready-to-wear (RTW) nato dall’unione dei nomi e delle idee delle sorelle gemelle romane Siliana e Serena Arena, laurea in fashion design all’Accademia di Belle Arti e un’esperienza pluriennale nella moda e in altri settori che le fanno approdare, quest’anno, alla realizzazione del proprio brand.

E che idea di moda hanno in mente Siliana e Serena? Innanzitutto qualcosa che le rispecchi e mi pare anche giusto: le due sorelle si definiscono anime erranti, profondamente innamorate dei viaggi verso luoghi remoti, poco battuti dal turismo, aperte in modo sincero verso il mondo con i suoi colori, odori, profumi e sensazioni, amanti della Natura e della Terra da custodire con sensibilità e rispetto.

Inevitabile quindi che Saneras rifletta questo sentire armonico tra essere umano e Natura, scegliendo materiali di alta qualità, naturali e sostenibili e proponendo capi che si affrancano dai trend passeggeri, perché l’idea è quella di una bellezza eterna, fatta per durare nel tempo, quindi, sì, anche classica ma ricca di dettagli inattesi e accattivanti.

Saneras FW1819 – courtesy of Saneras

Saneras, oltre ai materiali sostenibili, vuole sostenere anche la produzione di moda locale, perciò i capi sono studiati, disegnati e realizzati con la collaborazione di selezionati laboratori artigianali di Roma, piccole realtà ambasciatrici della cultura sartoriale italiana.

Le collezioni si sviluppano intorno al concetto di ‘capsule wardrobe’, una rappresentazione essenziale del guardaroba femminile, con lo scopo di fornire a ogni donna capi essenziali ma funzionali nelle combinazioni e porre più attenzione su ogni singolo capo, rendendo l’esperienza del vestire Saneras un calmo riappropriarsi di tempo e sensazioni. Insomma, qualità e non quantità.

‘Richiamo-capitolo I’ è il titolo della ‘capsule wardrobe’ invernale 2018/2019 ed è la rappresentazione estetica dei valori alla base del brand. Le caratterizzazioni dei capi sono un chiaro esempio del know-how sartoriale del brand, coniugato a una visione etica e sostenibile nella scelta dei materiali che comprendono fibre di origine naturale e vegetale certificate GOTS, in mischia tra loro o pure al 100%, trattate per ottenere una mano ‘pesca’ e un finish morbido a contatto con la pelle per un comfort totale.

Parlavo prima di uno stile classico, eterno, fatto per durare nel tempo ma con dettagli inaspettati, come nodi che legano i polsini delle giacche, chiusure avvolgenti e cinte a fusciacca, drappeggi e plissé lì dove meno te li aspetti, ad esempio sul retro di un abito.

Canapa e ortica, fibre tornate alla ribalta negli ultimi anni, sono tra i materiali utilizzati da Saneras; la canapa, che sta tornando a essere coltivata anche in Italia, è une delle fibre più sostenibili perché necessita di poca acqua, sfrutta poco terreno e non ha bisogno di pesticidi o altre sostanze chimiche. Anche l’ortica non richiede l’utilizzo di diserbanti e anti-parassitari ma, rispetto alla canapa, è una fibra molto difficile da coltivare, anche per questo molto pregiata, il tessuto che se ne ottiene presenta una tessitura ‘ariosa’ tipo il lino, ma con una brillantezza simile alla seta.

Anche la scelta del cotone biologico rispetta l’etica del marchio.

All’ultima edizione della Helsinki Fashion Week, dove le ho scoperte, Siliana e Serena hanno portato la prosecuzione della loro ‘capsule wardrobe’ ovvero ‘Richiamo – Capitolo II’, estate 2019. Ciò che mi auguro e che gli auguro è che Saneras sia come un libro infinito ricco di capitoli sempre nuovi e avvincenti che eco-à-porter sarà ben lieto di condividere.

In bocca al lupo ragazze (e sempre w il lupo!😉)

 

 

 

 

 

Notizie sostenibili dall’ultima Parigi Fashion Week

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Forse non mi sono mai scusata con voi, miei cari lettori, per certi vuoti che ogni tanto si creano tra un post e l’altro; mi piacerebbe garantire una certa continuità al blog ma non ne sono sempre in grado, perché seguo anche altri lavori e perché a volte capitano momenti in cui problemi e pensieri mi tengono lontana. Questo è uno di quei momenti, perdonatemi quindi, cerco comunque di esserci, come e quando posso.

Una delle mie altre occupazioni è anche seguire le varie fashion week internazionali; le seguo per una rivista specializzata ma le seguo anche perché solo così posso sapere se anche la moda mainstream inserisce e quindi considera gli eco-designer (come è successo alla Milano Fashion Week per Tiziano Guardini) o se qualche marchio del lusso comincia a  usare tecniche e/o materiali sostenibili nelle proprie collezioni.

È stato quindi un piacere constatare che sempre più designer, e mi riferisco sia a marchi storici del prêt-à-porter che a brand più recenti ma di tendenza, soprattutto tra i giovani, abbiano cominciato a sviluppare una certa sensibilità in questo senso, convincendo anche le dirigenze delle varie case di moda ad abbracciare un certo tipo di policy.

Oggi voglio portare due esempi che vengono da marchi diametralmente opposti sotto tanti aspetti ma che mi hanno piacevolmente sorpreso per le scelte fatte nelle loro ultime collezioni.

Julie de Libran – © IMAXtree.com

Il primo è Sonia Rykiel, storica maison francese fondata dall’omonima designer a fine anni ’60, che si è concentrata da subito sulla maglieria, quindi sulla lana, dandole la stessa importanza che gli altri stilisti normalmente riservavano a tessuti più pregiati. La Rykiel è scomparsa due anni fa e oggi la direzione creativa del marchio è nelle mani di Julie de Libran che, all’ultima Fashion Week parigina, conclusasi pochi giorni fa, ha presentato una collezione dedicata al quartiere Saint Germain e soprattutto al mercato bio della domenica.

Già le note di sfilata riportavano che si trattava della prima collezione che ha utilizzato in modo consistente materiali ‘più gentili con il Pianeta’. Quali? Pelle organica, con cui ha realizzato ad esempio abiti lavorati a macramè sfrangiato, poliestere riciclato e le tettoie delle bancarelle del mercato riciclate per le shopper. Plauso alla de Libran dunque, che ha intercesso con i vertici del marchio per convincerli della necessità di questa svolta sostenibile. Ciò che ci auguriamo ora è che la scelta sia coerente e che abbia dunque seguito. Aspettiamo dunque la prossima collezione.

Virgil Abloh, fondatore di Off-White – © IMAXtree.com

Off-White c/o Virgil Abloh è invece il brand fondato da Virgil Abloh, stilista americano (del momento) di origini ghanesi, vero artista poliedrico o ‘multi-sfaccettato’ come ama auto-definirsi, dato che oltre a fare il designer, è dee-jay, consulente creativo di Kanye West, profumiere, proprietario del proprio marchio, fresco direttore creativo di Louis Vuitton uomo e, il che non guasta, laureato in ingegneria con master in architettura (e ha anche ricevuto una nomination ai Grammy per il Best Recording Package per il ruolo di art director dell’album del 2011 Watch the Throne di Jay-Z/Kanye West). E ha solo 38 anni. Questo enfant prodige a 360°, è diventato, insieme alla sua etichetta, un fenomeno globale; lo streetwear deluxe di Off-White fa impazzire i giovani, roba che se Abloh lancia una tendenza, state sicuri che creerà migliaia, anzi, milioni di adepti in un nano-secondo.

Alle ultime sfilate parigine la sua collezione, ‘Track and Field’, si è imposta perché intrisa di sportswear con capi tecnici ultra-performanti, con l’accattivante aggiunta di elementi sartoriali e di tulle da grande soirée, impossibile quindi non conquistare i vari Millennial e Centennial. Ma ciò che ci è piaciuto di più sono i capi upcycled, realizzati con un collage di calzini della Nike (altro brand con cui Abloh collabora), non solo sostenibili ma anche belli da vedere.

Che poi un colosso mondiale come Nike, comunque non nuovo a pratiche sostenibili, se ne faccia promotore tramite collaborazioni con designer cool e seguitissimi come Virgil Abloh, è un ulteriore fatto positivo, perché coinvolge il vasto mondo dello sport e naturalmente i giovanissimi.

Anche in questo caso auspichiamo che ci sia una continuità, terremo d’occhio il lavoro di Abloh, ammesso che si riesca a seguirlo in tutte le sue varie attività! 😅 Ma a noi ci basta la moda.

Dalle foreste austriache di Lenzing alle atmosfere latine di Juan Carlos Gordillo

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Juan Carlos Gordillo alla Vienna Fashion Week - courtesy of Lenzing

Di Lenzing AG, storica azienda austriaca che opera nel settore tessile, ho già parlato nel blog, per esempio a proposito delle compagnie che si stanno impegnando a produrre viscosa sostenibile; Lenzing è una di queste appunto, con la cellulosa, materiale di base per le sue fibre, che è una componente naturale del legno, estratta e lavorata secondo un modello circolare sostenibile, puntando sulla conservazione delle risorse e sulla protezione dell’ambiente.

Juan Carlos Gordillo – courtesy of Lenzing

Tra i materiali prodotti da Lenzing c’è Tencel™, fibra dalle mille qualità e dai mille usi declinata anche in versione jeans con la denominazione di Tencel™Denim ed è proprio qui che volevo arrivare, perché all’ultima edizione della Vienna Fashion Week appena conclusasi, il designer guatemalteco Juan Carlos Gordillo ha sfilato con una collezione eco-oriented ovvero tra i 30 outfit della collezione, 15 sono stati realizzati con tessuti riciclati e 15, appunto, con Tencel™Denim.

Juan Carlos Gordillo, che ha iniziato la propria attività con un’iniziativa di crowdfunding, non ama seguire le tendenze; il suo stile è piuttosto legato a istinti creativi che nascono dalla passione per l’estetica country ma soprattutto da un vero impegno a lasciare il mondo migliore di come l’abbiamo trovato. Da qui l’uso di tessuti naturali e riciclati e la costante ricerca di modi sostenibili per produrre i propri abiti.

La collaborazione con Lenzing è quindi nata in modo naturale, con il designer ben lieto di poter utilizzare un materiale realizzato tramite un processo che rispetta l’ambiente e con l’azienda austriaca che, dall’altra parte, ha sostenuto volentieri il lavoro di Gordillo per il suo impegno in una moda eco-sostenibile.

Juan Carlos Gordillo con le sue modelle e Marco Schlimpert, SVP Lenzing – Courtesy of Lenzing

E la collezione? Dal titolo ‘Discover’, è prima di tutto un invito a esplorare noi stessi e ad acquisire consapevolezza del mondo che ci circonda, aprendoci agli scenari più inesplorati. Protagonista una moderna cowgirl che, percorrendo la mitica Route 66, sente nascere un forte desiderio di evasione e di avventura; tradotto, linee oversize alternate a linee slim, abiti di varie lunghezze con applicazioni a contrasto, camicie e giacche patchwork. E poi volant, asimmetrie, stampe floreali, il tutto con un forte accento latino. E il Tencel™Denim con le sue caratteristiche note di blu.

 

Juan Carlos Gordillo ci piace, quindi penso che approfondiremo presto il lavoro di questo designer impegnato e sensibile, magari con un’intervista! E ci piacciono anche le collaborazioni tra brand e aziende quando hanno obiettivi comuni in termini di sostenibilità. Se poi succede a Vienna, un luogo meraviglioso che conosco e amo particolarmente, ancora meglio!

Fashion, Environment, Change: la fanzine #3 di Fashion Revolution

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Copertina fanzine #3 di Fashion Revolution - courtesy of Fashion Revolution

I primi di agosto vi avevo parlato dell’uscita imminente della fanzine #3 di Fashion Revolution dal titolo ‘Fashion, Environment, Change’; ebbene, la rivista è uscita e mi è arrivata già da qualche giorno. È sempre un piacere riceverla e stavolta trovo un formato iper-ridotto (15 x 18) ma comunque piacevole perché dà l’idea di un opuscolo, di una sorta di vademecum leggero e portatile ma con dentro tante utili informazioni.

L’introduzione di Orsola De Castro, co-fondatrice della fanzine e di Fashion Revolution, dice tra le altre cose che la prima arma per portare un miglioramento nell’industria della moda è la conoscenza. La conoscenza in questo caso viene dal parere di diversi esperti che hanno dato il proprio contributo alla fanzine e nelle pagine successive seguono appunto questi piccoli contributi accompagnati dalle illustrazioni degli studenti di graphic design della Central Saint Martins. Eccone alcuni (e poi potete sempre ordinare la fanzine😉).

Sulla biodiversità di Sienna Somers – illustrazione di Florrie Macleod – courtesy of Fashion Rev

Sulla biodiversità. Sienna Somers, già autrice del blog ‘The Savvy Student’, studi in zoologia, scrive di come sia importante preservare gli 8 milioni di specie animali e vegetali terrestri per il loro insostituibile ruolo nell’ecosistema e che anche gli abiti che indossiamo hanno un impatto su di essi. E una t-shirt in cotone, ad esempio e il modo in cui quel cotone è stato coltivato, con insetticidi e pesticidi, costituisce già un attentato al suolo e ai suoi elementi. Se volete fare qualcosa potete acquistare cotone organico certificato GOTS e/o cotone riciclato, se possibile. La bella illustrazione è di Florrie Macleod.

Sulle emissioni. “Un paio di jeans 501 produce 33,4 kg di diossido di carbonio” scrive Sarah Ditty, a capo della policy di Fashion Revolution “non c’è da stupirsi del progressivo aumento del livello di diossido di carbonio nell’atmosfera”. E continua dicendo che gli scienziati prevedono che raggiungeremo il livello di non ritorno ovvero del disastro ambientale più grave entro il 2050, se non ci diamo tutti una regolata. Come? Per esempio, le stime  dicono che indossiamo un paio di jeans solo 2,3 volte tra un lavaggio e un altro… se li indossassimo ogni 10 lavaggi, potremmo ridurre l’energia usata del 77%! Illustrazione di Lillie Meyer.


Illustrazione di Lillie Meyer che accompagna il testo ‘Emissioni’ – courtesy of Fashion Revolution


Sugli oceani. Clare Press, responsabile per la sostenibilità di Vogue Australia e presentatrice di ‘Wardrobe Crisis podcast‘, parla degli 8 milioni di tonnellate che ogni anno invadono gli oceani. Una bottiglia di plastica può metterci anche 450 anni a degradarsi completamente. Non parliamo di una rete da pesca abbandonata: più di 600 anni! Una soluzione? Riciclare quella plastica, trasformandola in sneaker o in jeans oppure le reti da pesca in costumi da bagno (ne ho parlato in questo post). Già sta accadendo perché gli esseri umani sono ingegnosi e possono fare meraviglie (ma purtroppo anche disastri). Illustrazione di Alastair Vanes.

Sugli oceani di Clare Press – illustrazione di Alastair Vanes – courtesy of Fashion Rev


Sul riciclo. Matthew Needham, il designer che trasforma i rifiuti in abiti, dice che in un’economia circolare, il processo del riciclo è possibile a ogni passaggio, dal design alla produzione. Come rivoluzionari del fashion abbiamo l’opportunità di farlo in tanti modi diversi ispirando gli altri a fare lo stesso. Come giovani creativi abbiamo la libertà di essere innovativi con il riciclo esplorando i suoi limiti e insieme le sue potenzialità. È il nuovo zeitgeist. Illustrazione di Jessica Duggan.

Sul riciclo di Matthew Needham – illustrazione di Jessica Duggan – courtesy of Fashion Revolution


Sulla viscosa. Quando venne inventata a fine ‘800, la viscosa si presentava come l’alternativa più economica alla seta. Ma la sua produzione, oggi, richiede processi intensivi che vanno dalla deforestazione all’uso di sostanze chimiche tossiche. Molte compagnie stanno cercando di ridurre l’impatto della sua produzione collaborando con Canopy, una Ong che lavora con i brand per assicurarsi che il legno utilizzato per ricavare la materia prima per la viscosa sia certificato e che non vengano usate sostanze chimiche pesanti. Tutto questo e altro lo scrive Scarlett Conlon, fashion editor a The Guardian. Illustrazione, meravigliosa, di Helena Traill. (Della viscosa abbiamo parlato anche noi!!!)

Illustrazione di Helena Traill per il testo sulla viscosa – courtesy of Fashion Revolution


Come dicevo ne ho citati solo alcuni, ma la fanzine cita altri argomenti importanti accompagnati da immagini altrettanto deliziose. C’è anche una poesia di Wilson Oryema, scrittore e artista multidisciplinare. Take a look!

Il Manifesto per una Fashion Revolution

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Incipit del Manifesto della Fashion Revolution

Mi piace l’idea di cominciare settembre, mese di passaggio dall’estate all’autunno e momento sempre carico di promesse e propositi, un po’ come succede a fine anno, con il Manifesto della Fashion Revolution, movimento di cui tanto abbiamo parlato e di cui continueremo incessantemente a parlare, perché di esso condividiamo i princìpi.

L’intero Manifesto, che invito a firmare chi non l’avesse ancora fatto, contiene dieci punti che corrispondono ad altrettanti dieci ‘comandamenti’ che il sistema moda dovrebbe seguire per attuare quella rivoluzione che è il sogno di chi ha fondato il movimento e di chi vi ha aderito.

Illustrazione di Headhuntr Studio relativa al punto #1 del Manifesto

#1. La moda fornisce un lavoro dignitoso, dal concetto alla creazione alla sfilata. Non rende schiavi, non mette in pericolo, non sfrutta, non sovraccarica di lavoro, non molesta, non abusa né discrimina nessuno. La moda libera i lavoratori e chi gli abiti li indossa e autorizza tutti a difendere i propri diritti.

#2. La moda dà una paga giusta ed equa. Permette il sostentamento di tutti coloro che lavorano nel settore, dalla fabbrica alla vendita. La moda emancipa le persone dalla povertà, crea società prospere e soddisfa le  le aspirazioni.

Punto #2 del Manifesto – courtesy of Headhuntr Studio
Punto #3 del Manifesto – courtesy               of Headhuntr Studio

#3. La moda dà voce alle persone, rendendo possibile parlare senza paura, unirsi senza repressione e negoziare condizioni migliori di lavoro e tra le comunità.

#4. La moda rispetta la cultura e il patrimonio. Favorisce, celebra e ricompensa abilità e artigianalità. Riconosce la creatività come la propria risorsa più forte. La moda non si appropria mai senza dare il dovuto credito o prende senza permesso. La moda rende onore all’artigiano.

#5. La moda è sinonimo di solidarietà, inclusione e democrazia, indipendentemente da razza, classe, genere, età, forma o abilità. Sostiene la diversità come elemento cruciale per il successo.

Punto #6 del Manifesto – courtesy of Headhuntr Studio

#6. La moda conserva e risana l’ambiente. Non esaurisce risorse preziose, non degrada il nostro suolo, non inquina la nostra aria e acqua o nuoce alla nostra salute. La moda protegge il benessere di tutti gli esseri viventi e salvaguarda i nostri diversi ecosistemi.

#7. La moda non distrugge o scarta inutilmente ma ridisegna e recupera consapevolmente in modo circolare. La moda è riparata, riutilizzata, riciclata e ‘upcycled’ (non esiste un termine italiano per rendere bene questa parola, quindi la lascio in inglese! N.d.A). I nostri armadi e discariche non traboccano di vestiti desiderati ma non amati, acquistati ma non custoditi.

#8. La moda è trasparente e responsabile. La moda abbraccia la chiarezza e non si nasconde dietro la complessità né si affida ai segreti commerciali per ricavarne valore. Chiunque, ovunque, può scoprire come, dove, da chi e in quali condizioni viene prodotto il proprio abbigliamento.

#9. La moda misura il successo non solo da vendite e profitti. La moda attribuisce pari valore alla crescita finanziaria, al benessere umano e alla sostenibilità ambientale.

#10. La moda vive per esprimere, piacere, far riflettere, protestare, confortare e condividere. La moda non soggioga, denigra, degrada, emargina o compromette. La moda celebra la vita.

Certo, per molti aspetti si tratta di un Manifesto utopico ma come lo sono stati tanti Manifesti nel corso della storia. Eppure qualcosa si sta muovendo, è come una macchia d’olio che si espande sempre di più sulla superficie dell’acqua e contamina in positivo anche il flusso della moda mainstream. D’altronde per le più grandi rivoluzioni ci vogliono tempi lunghi fatti a piccoli passi ragionati.

Last but not the least, le illustrazioni che accompagnano i punti del Manifesto sono di Barbra Araujo di Headhuntr Studio, belle, vero?

Miss Janna Swimwear, l’est-etica in spiaggia

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Foto di gruppo - courtesy of Miss Janna

No, l’estate non è finita, anche se è quasi settembre, anche se per molti le ferie sono già un ricordo (e io allora che nemmeno le ho fatte?!), anche se c’è stato un momentaneo drastico calo delle temperature. E allora sì, è ancora tempo di costumi da bagno, soprattutto se sono eco-sostenibili come quelli di cui eco-à-porter ha già parlato, accattivanti come i nomi dei loro brand: Anekdot, Marble Swimwear, Aniela Parys.

Miss Janna l’ho scoperto grazie a un amico tedesco giramondo, beato lui, che conoscendo il blog, quando trova ispirazioni a tema, me le segnala; qualche tempo fa mi ha mandato questa cartolina, che ho incorniciato per farne un post sul profilo Instagram di eco-à-porter e da cui sono partita per raccogliere informazioni sul marchio, che è svedese, di Göteborg e si chiama come la sua fondatrice, Janna Drakeed.

From a postcard of Miss Janna

Una cosa salta subito all’occhio: l’allure vintage. Non solo nelle pettinature e nelle pose delle modelle ma soprattutto nello stile dei costumi da bagno, che riprendono i modelli da pin up anni ’40 e ’50, con i bikini composti da reggiseno avvolgente e culotte a vita alta e gli interi che oggi chiameremmo ‘contenitivi’, quasi a tutina, con la parte bassa a short ma non per questo meno sexy e femminili. L’idea, alla designer, è venuta chiedendo alle proprie clienti che cosa volessero da un costume da bagno, la risposta è stata praticità e appeal, perché i modelli esistenti sembravano troppo sportivi o minuscoli o al contrario coprenti.

Courtesy of Miss Janna

Ciò che invece non è visibile ma è la caratteristica fondante del marchio è la sua eco-sostenibilità; i costumi sono infatti realizzati rigorosamente a mano in ECONYL®, sì, proprio quel tessuto italiano di cui abbiamo già parlato, quello rigenerato dalle reti da pesca e da altri scarti industriali. Come altri designer che producono linee swimwear ecologiche utilizzando ECONYL, anche Janna Drakeed riconosce che il materiale si è rivelato molto più resistente del nylon vergine e durevole negli anni.

Così, oltre all’estetica accattivante, fatta per accentuare la bellezza del corpo femminile senza esporlo, il marchio si pone l’obiettivo di contribuire alla salvaguardia del pianeta, evitando l’uso di nuove risorse fossili e riducendo contemporaneamente la marea (nel vero senso della parola, dato che le plastiche ormai infestano gli oceani!) di rifiuti esistenti.

Miss Janna vende bene in Svezia ma anche nel resto d’Europa, segno che, aldilà dell’estetica e di una linea che enfatizzi i punti giusti, l’aspetto etico è tenuto in grande considerazione, anzi, a volte è ciò che convince all’acquisto più del modello o di una stampa particolari (i costumi di Miss Janna sono sia a tinta unita che a motivi floreali e marini ispirazione vintage).

 

Quindi avanti donne, che l’estate non è ancora finita e forse adesso trovate anche qualcosa in super-saldo! 😉

Il mio nome è Aniela Parys

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courtesy of Aniela Parys

Aniela Parys. Non sembra il titolo di un film? Magari di una pellicola d’autore dalle atmosfere vintage, con la protagonista, Aniela, che parte, mettiamo caso, dall’Oregon, Usa, per approdare nella vecchia Europa e fare fortuna con una propria casa di moda. Potrebbe essere una storia adatta a ogni epoca e anche un copione cinematografico avvincente, se non fosse che Aniela Parys esiste veramente, è una designer, viene da Portland, Oregon e vive a Barcellona, dove ha un brand, che porta il suo bel nome, di lingerie, swimwear e abbigliamento. Aniela, che lavora nella moda da quando era molto giovane, ha sempre saputo che voleva avere un proprio marchio, su cui ha cominciato a lavorare quando viveva ancora a Portland e che ha poi lanciato quando si è trasferita in Spagna nel marzo 2015.




Aniela Parys l’ho scoperto su Instagram, come altri marchi di cui ho parlato nel blog ma stavolta ci ha messo lo zampino mia sorella che me l’ha segnalato e che ringrazio🙏🏻; mi ha colpito per la naturalezza delle immagini in cui le modelle, a loro agio nei propri corpi magri e abbondanti, tonici e meno tonici, tatuati e non, sono ritratte spesso all’aperto, in mezzo a campi di grano o prati fioriti, su scogli a picco sul mare oppure su terrazze tra panni stesi o in interni intimi e luminosi, tra lenzuola sfatte e piante ornamentali. E questo, secondo me, dà già una certa idea del tipo di stile e di concetto che il brand vuole comunicare: il fatto a mano, la spontaneità, l’utilizzo di materiali naturali come cotone e lino e poi tante altre cose che Aniela stessa mi racconta via mail.

“Sin dall’inizio del mio lavoro” spiega Aniela “sono stata fortemente influenzata dal movimento della slow fashion (che è l’esatto opposto della fast fashion N.d.A.); crescendo in Oregon, già dalla tenera età sono stato esposta alla miriade di informazioni sull’industria della moda e su quanto possa essere dannosa per le persone e l’ambiente in tutto il mondo. Il mio scopo è quindi sempre stato quello di offrire un’alternativa e cambiare il modo in cui la gente pensa all’abbigliamento. Per esempio, i nostri materiali sono principalmente fibre naturali come cotone e lino e tessuti provenienti da rimanenze di magazzino, il che significa che sono stati scartati dalle grandi produzioni aziendali”.

 

Un’altra delle caratteristiche che Aniela sottolinea del proprio marchio è il supporto artistico che ci sta dietro e che lei stessa considera, a ragione, un punto di forza. Per ogni collezione il brand ricorre a collaborazioni con artisti che aggiungono valore e impatto sia al capo che all’intero contesto; scenografia, fotografia, videografia sono tutte discipline cui la designer attribuisce, giustamente, uguale importanza perché intervengono, ognuna in modo diverso, a perfezionare l’immagine del prodotto ma anche il messaggio legato a esso. Credo che finora Aniela ci sia riuscita bene, perché sono state proprio le immagini del suo profilo a colpirmi alla stregua di piccole opere d’arte. Aniela si augura di poter creare col tempo una piattaforma che supporti altri artisti e di trovare un modo per catturare i momenti speciali che crea con loro per presentare le proprie collezioni. Io credo che il modo, Aniela Parys, l’abbia già trovato.

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