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Endelea, dove i confini sono ponti verso il futuro

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di Mariangela Bonesso

Contatto Francesca una prima volta, mentre si trova ancora a Milano. Lei, dopo qualche giorno, risponde via mail dalla Tanzania, dove sta coordinando un nuovo progetto di shooting. Leggo il suo messaggio e mi domando: “Ma come fa a fare tutto?”. Francesca De Gottardo, CEO di Endelea, ha l’entusiasmo contagioso di chi nella vita, più che la meta, assapora il percorso senza sconti di rischio.

Quando Barbara mi ha chiesto di intervistarla per eco-à-porter, ho ripensato al suo sguardo, incrociato tempo prima sulle pagine del Magazine LEI: occhi sinceri, autentici come le prime parole di una storia che mira dritta al cuore. E chi conosce Endelea, sa che è esattamente così: una realtà di moda etica tra Italia e Tanzania, nata come start up nel 2018 e divenuta società benefit dal 2020. Un’impresa che parla di inclusività, di creatività senza confini fisici ma rispettosa dell’autenticità delle tradizioni.

Le collezioni Endelea di abiti e accessori sono disegnate a Milano e realizzate da sarte e sarti a Dar es Salaam, in Tanzania. Le stoffe, come Wax, Kikoi, Maasai, sono acquistate in loco mentre la distribuzione avviene in tutta Europa tramite il sito ufficiale.

Francesca De Gottardo alla premiazione Young Designer DHL Award 2022

Un mix virtuoso di relazioni e competenze tra due continenti, che si completa con una percentuale di ricavi reinvestita nella formazione dei dipendenti in Africa e nella realizzazione di progetti educativi per scuole e università tanzaniane. 

Lo scorso autunno, in occasione della prima partecipazione di Endelea alla Milano Fashion Week tra i ‘Designers for the Planet’, il brand ha ricevuto due prestigiosi riconoscimenti: il Premio Camera Buyer e il Young Designer DHL Award 2022.

La collezione inverno Maasai, firmata dalla designer e creative director Alessandra Modarelli, ha sorpreso anche per l’innovativo impiego del tessuto: il Maasai è stato infatti trapuntato e imbottito con fibre sostenibili. Il risultato è una capsule colorata e calda di giacche e gonne reversibili, sciarpe oversize e colletti.

Maxi abito Maasai e giacca reversibile trapuntata

Oltre al Masaai trapuntato, nella collezione è presente anche il tessuto nella versione check, più leggera e prevalentemente in cotone, valorizzata da ruche, volant e maxi balze, e quella Shuka, più pesante e adatta a un look punk-chic, con gonne frangiate e pantaloni palazzo.

I colori riflettono significati diversi: il rosso e il rosa evocano il coraggio, il bianco la purezza, il verde la natura come fonte di vita mentre il giallo richiama l’energia del sole. La collezione Maasai ha ottenuto anche il patrocinio della Maasai Intellectual Property Initiative (MIPI), che tutela la cultura Maasai nel mondo. 

Non posso non chiedere a Francesca quale sia, per Endelea, il limite oltre cui l’interpretazione di tessuti, che non appartengono alla propria cultura, più che sinergia creativa diventa quasi un modo ‘sbagliato’ di usarli.

Spiega Francesca: “Per Endelea il limite è e sarà sempre quello che ci danno le comunità con cui collaboriamo, che di una determinata cultura sono i depositari: ci fidiamo delle persone e cerchiamo di prendere solo decisioni che rispettino tutti i protagonisti di ogni racconto – dai Maasai ai designer locali, dai pittori Tingatinga al team tanzaniano che lavora alla manifattura delle collezioni. La parola chiave per Endelea è sempre rispetto, e ci sono state anche occasioni in cui ci siamo tirate indietro e abbiamo rinunciato a qualcosa per non rischiare di far passare un messaggio meno autentico. Nel caso della collezione Maasai, ad esempio, tutti i capi sono stati realizzati in collaborazione con i Maasai del MIPI, che ci hanno anche illustrato i significati dei singoli colori e ci hanno consigliate sul modo migliore per mostrare attraverso le foto gli elementi della loro cultura, in modo che i nostri contenuti fossero a tutti gli effetti un amplificatore della loro voce, più che una voce sé stante che parla di cultura Maasai. La differenza tra cultural appropriation e appreciation è molto sottile, ma alla fine la differenza la fanno sempre le persone e il loro atteggiamento”.

Endelea, il proprio tratto distintivo, lo porta scritto anche nel nome: in lingua Swahili, significa ‘andare avanti senza arrendersi alle difficoltà’ mentre il claim DREAM BOLD invita a sognare in grande, avendo magari anche il coraggio di attuare un cambiamento. Francesca e il suo gruppo cercano di farlo ogni giorno, investendo molto sulle donne con un team all’85% femminile, azzerando il gender pay gap e garantendo alle sarte e ai sarti in Tanzania uno stipendio ben più alto della media locale, oltre a un’assicurazione sanitaria per sé e le famiglie.

Un impatto positivo sulle persone che genera un effetto altrettanto positivo sull’ambiente: la filosofia sostenibile del brand passa anche dall’acquisto di tessuti africani presso produttori locali o in alternativa realizzati ad hoc da piccoli rivenditori del posto, così da rendere la filiera trasparente, equa e sostenibile dal punto di vista ambientale.

Anche il packaging è rigorosamente curato per essere plastic free: la busta che contiene i capi deriva da tessuti di scarto delle precedenti collezioni mentre le etichette sono in carta riciclata e i sacchetti compostabili. Perché ogni azione, anche la più piccola, può veramente fare la differenza. 

Endelea alla Milano Fashion Week

Chiedo a Francesca quale sia, nell’alfabeto della sostenibilità, la parola che più di altre può convincere a un acquisto consapevole: “Futuro, risponde sicura. Che le nostre scelte abbiano un impatto a livello ambientale, oltre che umano, è una certezza ormai sotto gli occhi di tutti. Un impatto che sta crescendo a livello esponenziale e ci espone al rischio di un futuro molto diverso da quello che immaginiamo, costellato di eventi drammatici e dove le nostre scelte saranno comunque molto ridotte, che lo vogliamo o no. Quindi è per questo futuro, che non è remoto ma anzi pericolosamente vicino, che dobbiamo modificare i nostri comportamenti di oggi: ogni acquisto porta con sé una scelta”.

Penso a mia figlia, 9 anni, quando in una scatola da buttare vede spazio per la fantasia, e a mia nonna, sarta in periodo di guerra, che risvoltava i colletti dei cappotti e reinventava per le clienti gli stessi vestiti a colpi di forbice, aggrappandosi alla fiducia in un domani diverso. 

Hai ragione, Francesca: qualunque sia il nostro presente, un’alternativa c’è sempre e il futuro che vogliamo, fosse solo un pezzettino, possiamo costruirlo anche noi. Scegliendo, ogni giorno.

Tutte le immagini sono courtesy Endelea

Humana People to People, un modello vincente di economia circolare

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di Laura Galloppo

Humana People to People è tante cose insieme: un modello di business peculiare, una rete di vintage shop riconoscibili, un network di collaborazioni che gli permette una presenza capillare sul territorio, una realtà che ogni anno realizza oltre 1.200 progetti di sviluppo nel mondo, contribuendo a migliorare le condizioni di vita di circa 10 milioni di persone. 

Così mi trovo un po’ in difficoltà nell’affrontare l’universo Humana. Da dove iniziamo?

Probabilmente da quello che ognuno di noi ha visto almeno una volta: gli iconici contenitori gialli, circa 5.000 in tutta Italia, con cui Humana People to People effettua la raccolta di abiti usati. Poi cosa succede?

Sul sito di Humana la filiera è tracciata molto bene, chiunque può capire il percorso di una maglietta che finisce nella raccolta dell’usato, raccolta realizzata a titolo gratuito per le amministrazioni comunali convenzionate. 

L’hub di Pregnana Milanese è il cuore dell’attività di smistamento che svolge Humana; la maggior parte degli abiti raccolti, il 67,5%, può essere riutilizzata come vestiario ed è immessa nelle rete di punti vendita Humana, il 25,5%, è destinato al recupero delle fibre e il restante 7% al recupero energetico.

Se siete stanchi di sentire numeri passiamo all’aspetto più glamour di Humana, ossia i circa 500 negozi solidali in Europa, di cui 12 vintage shop in Italia. 

Le città baciate dai vintage shop Humana sono Milano, Torino, Verona, Bologna, Roma e, da poche settimane, anche Firenze. Il nuovo negozio fiorentino si trova in centro storico, via delle Belle Donne, al civico 4R. Dagli anni ’60 ai ’90 via libera alla ricerca del capo ben fatto, dal maglione in pura lana al trench iconico e a tutto quello che può accontentare lo stile in maniera etica. 

Tutto negli shop Humana Vintage punta a un’esperienza glamour: l’allestimento, l’arredamento, specchi ben posizionati, vetrine accattivanti e collezioni che si susseguono di stagione in stagione, creando nuovi motivi per fare un salto in boutique.

Il vintage ha perso la connotazione polverosa di un tempo. Oggi è estremamente trendy vestirsi con abiti e accessori retrò, potendo, in questo modo, accontentare le tasche e creando uno stile più particolare e ricercato di quello omologato che il mass market e la fast fashion offrono.  

Dalla raccolta, siamo entrati negli shop Humana Vintage, e ora? Non è finita qui. 

Una caratteristica di Humana People to People che non può passare inosservata è la sua capacità di costruire partnership con tantissimi attori e stakeholder molto variegati tra loro, con l’unico obiettivo di creare un mondo più equo e incentivare l’economia circolare. 

Humana People stringe partnership con aziende, onlus del terzo settore, enti e istituzioni pubbliche e private. Non esiste una partnership impossibile. Non dovrete meravigliarvi, ad esempio, delle 1.000 camicie donate all’artista Kaarina Kaikonnen, esposte a Milano per la mostra Tied Together alla Rotonda di via Besana e presso la Galleria M77 (via Mecenate 77).

Molto forte è il legame con aziende con cui vengono co-progettate attività di responsabilità sociale d’impresa; le iniziative di CSR possono assumere volti diversi: campagne abbigliamento, donazioni in-kind, match giving e volontariato aziendale, cause-related marketing. Quali sono le caratteristiche che li accomunano? Si tratta per lo più di progetti di lungo periodo, si preferiscono progettualità che coinvolgano molti stakeholder, e quelli che permettano una buona comunicazione. Il buon vecchio adagio è ancora valido ‘fai bene e fallo sapere’.

Se vi state chiedendo qual è l’ultima partnership sottoscritta da Humana, per rispondere basta recarsi in uno qualsiasi degli 800 negozi OVS e adocchiare il box della campagna ‘Dona i tuoi abiti usati a Humana’. I clienti OVS possono portare i loro indumenti inutilizzati e donarli, riceveranno in cambio un voucher del valore di 5€ per i futuri acquisti. 

Tenete gli occhi ben aperti perché abbiamo motivo di credere che ritroverete un pezzetto di Humana People to People in giro sempre più spesso, e in ogni dove.

La body shape secondo Nicoletta Fasani

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di Mariangela Bonesso

Pensarci ‘clessidra’ o ‘triangolo’ può far sorridere ma la teoria alla base della body shape, intesa come conoscenza e valorizzazione delle proprie forme, non è solo una pratica ormai consolidata ma anche una valida exit strategy dal rigore delle taglie.

È la scelta dell’outfit, non il tipo di fisicità, a essere messa in discussione e mai in un’ottica penalizzante: il gusto personale non si giudica ma lo si affina in accostamenti e combinazioni per esaltare la nostra unicità. Date queste premesse, per quanti amano la moda sostenibile, è naturale chiedersi se anche in termini di volumi e proporzioni scegliere l’eco-style possa fare la differenza. 

Elisa Negro

Qualche idea in proposito l’abbiamo avuta venerdì 4 novembre, curiosando nell’atelier milanese di Nicoletta Fasani in occasione dell’evento ‘Body shape e moda sostenibile’ con Elisa Negro, consulente d’immagine e fondatrice del brand #disTURBtheCANCER, che produce turbanti in fibra di latte, specificatamente pensati per donne affette da alopecie, in particolar modo di tipo chemioterapico.

La differente resa delle fibre sostenibili, Elisa la sperimenta anche nelle sessioni di personal styling: “I tessuti naturali con mano serica, se drappeggiati in maniera strategica, sono in grado di abbracciare le curve di una donna, donando loro ulteriore sensualità. Hanno una resa estetica che rimanda messaggi di delicatezza e, quindi, di estrema femminilità. Quando, invece, non vengono strutturati e sono lasciati cadere verso il basso, restituiscono visivamente un effetto scivolato, capace di verticalizzare le parti più giunoniche di un corpo”.

E per chi ha necessità di aggiungere volume? “In una sezione più minuta, consiglia Elisa, si opterà per la lana grossa, la canapa e il lino. La loro struttura più fitta, infatti, avrà una funzione riempitiva e armonizzante. Pensiamo a una donna triangolo, body shape caratterizzata da una sezione del corpo superiore più minuta rispetto a quella inferiore: per il topwear funzioneranno tessuti più strutturati. Per la sezione lato B/gambe, avranno la meglio tessuti cascanti e più sottili”. 

Ma vestire le forme del corpo significa anche ragionare sulle forme dell’abito. Lo sa bene Nicoletta Fasani, le cui collezioni nascono dallo studio di forme geometriche semplici, replicate in abiti trasformabili e componibili. Oltre che dalla scelta dei tessuti, la sostenibilità è quindi garantita anche dalla possibilità di personalizzare più volte l’outfit, sovrapponendo stoffe o indossando lo stesso capo in modo differente, proprio perché lo consentono le linee pulite e l’armonia di volumi alla base della sua stessa ideazione.

La Maglia Nodo, ad esempio, veste le forme in base al modo in cui la si intreccia, mentre la Maglia Cocò, più lunga dietro e più corta davanti, è una taglia unica permessa dalla vestibilità del taglio svasato (le vedete nella copertina). “Mi piace giocare con colori e forme, senza troppo rigore, dice Nicoletta, mi piace dare nell’occhio, ma non troppo. Essere raffinata, senza sbrilluccichi e tacchi. Mi piace osare il giusto. Per divertirmi e riderci sopra”. 

E se questo è il mood, non ci sono ‘clessidra’, ‘triangolo’ o ‘ovale’ che non possano dirsi soddisfatte.

Immagini courtesy Nicoletta Fasani ed Elisa Negro

Haute-à-Porter crea il ‘Caos’

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Lo ammetto, è stato il nome del brand a colpirmi, per assonanza. E allora ci sono andata a guardare e mi è piaciuto, così che ho deciso di parlarvene.

Haute-à-Porter è un marchio fondato dall’artista e designer messicana Jehsel Lau ed è specializzato nell’abbigliamento per la danza e le arti performative, difatti il taglio sportswear è molto incisivo.

La sua nuova collezione, ‘Caos’, presentata all’ultima Fashion Week milanese (un altro degli argomenti tralasciati causa Covid) nasce dall’interesse della designer per gli studi neuro-scientifici, secondo cui i nostri pensieri possono influire positivamente o negativamente sul nostro corpo, migliorandolo o danneggiandolo.

Un look della collezione ‘Caos’

La scelta e l’uso di parole e riflessioni corrette possono attirare in noi salute, benessere, successo e sane relazioni, ma al contrario, anche, ammalare il corpo se le idee sono distruttive e negative. Questo perché il cervello non distingue tra un’emozione che sta accadendo per un fatto reale o un’emozione derivata dai nostri pensieri; così facendo si generano sostanze e ormoni, nel lungo periodo, dannosi.

“La collezione, racconta la designer, inizia da un dipinto fatto in un momento di crisi durante la pandemia, in una fase di isolamento e di incertezza, in cui era necessario muovere la mente in cerca di motivazione e speranza. Credo che quando abbiamo momenti di crisi, arriva un ‘Caos’ di pensieri che prendono potere nella nostra mente, prima come piccole pennellate che, se incoraggiate, si trasformano in pensieri profondi, come macchie giganti nel nostro cervello che possono coprire tutte le connessioni neurali, a volte creando sentimenti di depressione o di ansia profonda.”

La capsule collection ‘Caos’ adotta la filosofia dell’upcycling, riutilizzando i materiali delle stagioni passate e i ritagli in eccesso su finiture fatte intenzionalmente a mano. In generale il pensiero dietro il lavoro di Jehsel Lau è quello ‘zero sprechi’, con il recupero tessile, l’handmade e processi di produzione etici che permettono risparmio di acqua all’origine ma anche a capo finito, trattandosi di tessuti che si sporcano poco, repellenti ai liquidi e ai batteri.

I 10 look sono genderless e interscambiabili per creare infinite combinazioni, hanno un appeal sportivo, come dicevo all’inizio e colorati, perché il colore incarna il ‘Caos’, irriverente e invasivo, che a poco a poco si attenua in sezioni piatte e armoniose, fino ad arrivare a una rete di pensiero sereno, interpretata dal colore nero, che sembra finalmente dominare.

La collezione di Haute-à-Porter è stata esposta a Milano nei giorni della Fashion Week, adesso e per tutto novembre, in Messico, è presentata tramite eventi privati che prendono il nome di ‘Tour dell’Amicizia e della Comunità’, in cui i membri e la community del marchio possono acquistare la collezione in anticipo e supportare così il brand nella produzione con la filosofia ‘no waste’.

Carina come iniziativa, no?

Tutte le immagini, inclusa la copertina, sono courtesy @Haute-à-Porter

Female Arts in Florence: donne che supportano donne

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Quando sono stata a Firenze per la Fashion Revolution, ad aprile scorso, la mia amica Debbie aka Debora Frosini, designer e fondatrice del marchio Atelier Biologico Firenze, mi ha portato, tra le altre cose, a visitare Female Arts in Florence (FAF), galleria d’arte e concept store tutta al femminile a Borgo San Frediano, nel centro storico fiorentino.

La fondatrice Giulia Castagnoli

Progetto originale e strettamente legato all’economia circolare e alla moda etica, mi sono ripromessa di dargli spazio nel blog ed eccolo qua.

Fondato nel 2021 dalla graphic designer Giulia Castagnoli, FAF, prima che galleria e shop, è uno spazio libero gestito dalle donne per le donne, un luogo di aggregazione e collaborazione in cui la parola chiave è ‘indipendenza’. Indipendenza di gestione, di creazione ma al contempo condivisione di attività ed esperienze, per fornire una risposta positiva e ottimista al clima di esclusione e sottovalutazione delle donne, che si respira, soprattutto negli ambienti lavorativi.

Le attività sono quelle legate alla creatività nelle sue varie espressioni: pittura, scultura, moda, artigianato, insomma le arti, che in un luogo come Firenze, che proprio nelle arti e nei mestieri fonda le proprie tradizioni, rappresenta una scelta apparentemente coerente ma anche e soprattutto di controtendenza, perché storia e tradizioni, nel progetto multiculturale di FAF, devono rappresentare una base solida per il futuro, per aprirsi all’altro e al contemporaneo.

Compare spesso il prefisso ‘multi’ nelle varie accezioni di FAF, perché è tante cose insieme, non solo in ciò che si propone ma anche in ciò che è, fisicamente: due piani, uno superiore come spazio per co-working, mostre, esposizione e shop con vendita di prodotti artigianali contemporanei di alta qualità e uno inferiore per corsi, laboratori, workshop ed eventi privati.

Un coloratissimo angolo dello spazio di FAF

Altra parola d’ordine, oltre che indipendenza, ‘condivisione’: nell’era di quella che ormai è definita ‘sharing economy’, anche gli spazi lavorativi vengono condivisi. Non si tratta di una semplice scelta economica, ma di una visione che concepisce l’ambiente di lavoro come un modo per entrare in contatto con realtà in cui far convergere competenze e talenti.

Lo spazio di FAF da un’altra prospettiva

Ma chi sono le creative che al momento fanno parte di FAF? Quali le loro peculiarità, gli ambiti di lavoro? Sono diverse e mi piacerebbe parlare di tutte ma siccome qui ci occupiamo di eco-moda, approfondirò quattro profili più attinenti alle nostre tematiche, però vi invito, anzi, vi raccomando di visitare il profilo Instagram di FAF per conoscerle tutte.

Claudia Cucchi è brasiliana, vive a Firenze da più di 20 anni, è orafa e il suo jewelry brand si chiama Cacu Lab. Anche se non ci occupiamo di gioielli (non ancora almeno), l’ho scelta sia perché lavora con il PLA, una bio-plastica degradabile ricavata da materie prime rinnovabili, sia perché le sue creazioni sono realizzate con la stampa 3D, di cui abbiamo parlato riguardo al lavoro della designer Danit Peleg, che poi lei modella e perfeziona a mano.

Florence I.J.Franks è nata e cresciuta a Firenze da una famiglia italo-nigeriana. Il suo marchio ERIRI, da ‘filo’, ‘nodo’, ‘fibra’ in Igbo, una delle lingue parlate in Nigeria, crea accessori in lino, tessuto simbolo del brand, proveniente da partner che sostengono gli stessi processi slow, il patrimonio locale e il rispetto per i produttori e per la terra.

Graciela Avendano è una designer messicana, vive a Firenze e la sua linea Pitti Vintage nasce dalla passione per gli animali e per una moda tassativamente cruelty-free. Le sue borse sono realizzate a mano in pelle vegana con accese combinazioni cromatiche, mentre i materiali per gli interni spaziano dalla tela di cotone rivestita in poliuretano ai tessuti per tappezzeria in cotone organico al cartone riciclato.


Ultima ma non meno importante Debora Frosini, che ho citato all’inizio, fiorentina doc e fondatrice di Atelier Biologico, con cui propone una moda lenta, artigianale e sostenibile realizzata a telaio. La sua filosofia è un mix d’ispirazione tra natura, tradizione e artigianalità per capi di alta qualità di una bellezza senza tempo. L’ultima collaborazione di Debora con il designer emergente Moses Moshions a Pitti Uomo.

Anche la fondatrice Giulia Castagnoli non è da meno con Ink Pink, arte indossabile realizzata con la serigrafia su capi e calzature fatti a mano in Toscana.

Insomma tostissime queste donne e la loro arte, andatele a conoscere tutte, per chi è a Firenze o ci passa consiglio vivamente una visita alla galleria, ne rimarrete affascinati, come lo sono rimasta io. E’ un luogo vivace, colorato, raffinato, pulsante di vita, sicuramente proveniente dalle opere delle artiste, che rivelano la loro anima e l’anima del progetto.

Il gruppo FAF al completo

Tutte le immagini, compresa quella di copertina, sono courtesy @FAF

Dai Sari riciclati, abiti ‘delhiziosi’

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Quando ho contattato Paolo A. Giordano per parlare del suo brand Delhicious, l’ho trovato piacevolmente sorpreso: “E’ la prima volta che mi pubblicano”.

Uno dei modelli Delhicious

Beh, per me è solo positivo poter parlare di questa piccola realtà sospesa tra Scoglitti, borgo marinaro del comune di Vittoria, Ragusa, con affaccio sul golfo di Gela, e l’India, vastissima e diversificata, da cui Paolo, imprenditore 29nne, ha avviato, nel 2019, la propria attività.

Piccolo passo indietro: Paolo è impiegato in un negozio etnico del Nord Italia e per lavoro si reca a Delhi; successivamente al suo licenziamento, conoscendo il territorio e avendo già stabilito dei contatti, decide di mettersi in proprio e fonda Delhicious, crasi di ‘Delhi’ e ‘delicious’ (delizioso in inglese), marchio che realizza capi ricavati da Sari indiani riciclati.

Il Sari è l’abito tradizionale che portano le donne indiane e ha delle origini antichissime, tanto da essere uno dei pochissimi indumenti tramandato per così tanti secoli fino ai giorni nostri.

Dai Sari originali che, come mi racconta Paolo, sono reperiti in depositi localizzati a Mumbai e nel Nord dell’India, si ricavano i tessuti per uno, al massimo due capi, dato che la grandezza di ognuno è di circa 5,5 metri quadrati, per cui già questa è una caratteristica che conferisce al prodotto finale unicità.

Poi c’è un altro valore aggiunto che è quello della datazione dei Sari, che risalgono spesso agli anni ’70/’80/’90, quindi stoffa e stampe vintage che finiscono in un abito nuovo. Questa è la cosa che mi affascina di più.

Modelli e tagli sono giovani e contemporanei, con taglie che arrivano fino alla 52, per una moda che Paolo vuole inclusiva e adatta a ogni tipo di forma, quindi le linee restano fluide e morbide, anche per assecondare il tessuto originale, concepito comunque per un abito comodo, non costrittivo.

Completo con top incrociato

Ma la produzione a chi è affidata e, soprattutto, in quali condizioni lavorano gli operai? Il laboratorio si trova nello stato del Rajasthan e vi lavorano sia uomini sia donne che si dividono i compiti in base a esigenze e capacità; Paolo lo ha visitato nel 2019, prima del Covid e spera di tornare presto ma nel frattempo mette le mani sul fuoco sul proprio fornitore e sul fatto che coloro che si occupano di cucire e confezionare gli abiti ‘delhiziosi’ hanno paghe e condizioni di lavoro dignitose.

Delhicious tratta anche capi in cotone e i bottoni che li compongono sono in legno di cocco ma il must resta l’abito ricavato dal Sari, e se è vintage è pure meglio.

Tutte le immagini sono courtesy Delhiciuos


Proudly re-made in Mediterraneo

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Abbiamo parlato spesso dei progetti legati al recupero e al riciclo delle reti da pesca abbandonate in mare, tra l’altro citando più volte Econyl, il filato rigenerato proprio dalle reti da pesca e altri scarti pre e post consumo.

I tre fondatori di Risacca

Un’altra bella iniziativa nasce dalla collaborazione tra la piattaforma di vendita online per la moda di lusso GIGLIO.COM e Risacca, progetto di economia circolare fondato da Carlo Roccafiorita, Federica Ditta e Cristiano Pesca, tre professionisti under 35 con background in design, rigenerazione e impatto che, a Mazara del Vallo, provincia di Trapani, hanno la missione di salvaguardare l’ambiente marino promuovendo soluzioni innovative sul riuso degli scarti dell’industria ittica, dalle reti da pesca alla plastica recuperata nel mar Mediterraneo.

Si chiama ‘Proudly re-made in Mediterraneo’ ed è una collezione di eco-borse unisex realizzate appunto grazie al riutilizzo delle reti da pesca abbandonate in mare.

Le borse, accattivanti nella loro semplicità, sono acquistabili su GIGLIO.COM e l’intero ricavato sarà devoluto al progetto Risacca Lab per la realizzazione di un laboratorio artigianale proprio a Mazara, città storicamente legata all’industria ittica, da diversi anni in piena crisi tra disoccupazione, calo dell’indotto e mancato ricambio generazionale. 

Un progetto, quindi, che oltre a creare occupazione, aiuterebbe a recuperare tonnellate di reti da pesca annualmente scartate a Mazara, i cui oneri di smaltimento gravano sulle economie dei pescatori, a volte spinti a ricorrere a metodi di illegali.

Risacca Lab è pensato come una vera e propria sartoria sociale dove artigiani e operatori locali si occupano di curare ogni fase di rigenerazione del prodotto, trasformando gli scarti in oggetti di arredo e di design.

“Le soluzioni generano impatto solo se condivise, dicono i tre fondatori di Risacca. A un anno dalla nascita del progetto Risacca, siamo entusiasti di presentare insieme a GIGLIO.COM questa capsule collection fatta in rete recuperata, rigenerata e lavorata artigianalmente, frutto della ricerca svolta insieme a pescatori e artigiani della comunità di Mazara del Vallo per la salvaguardia del mare. Questi prodotti sono sintesi della nostra missione nel mondo, dove l’economia circolare esercitata con un approccio inclusivo può generare impatto ambientale, sociale e culturale”.

Jean Gritsdfeldt, una collezione per la pace

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BERLIN, GERMANY - MARCH 16: Models walk the runway at the Jean Gritsfeldt show during the Mercedes-Benz Fashion Week Berlin March 2022 at Kraftwerk Mitte on March 16, 2022 in Berlin, Germany. (Photo by Sebastian Reuter/Getty Images for Nowadays )

“Oggi non è tempo di parlare di moda ma tramite la moda. Oggi non presenteremo la nuova stagione, oggi non presenteremo nuovi look, perché quando sei seduto in un rifugio antiaereo o in un bunker o in un seminterrato, a nessuno importa cosa indossi. La cosa più importante è stare caldi, comodi e protetti. Oggi mettiamo in scena sentimenti e sensazioni.”

Il video-messaggio di Jean Gritsfeldt prima del suo show alla Mercedes Fashion Week di Berlino (courtesy Sebastian Reuter/Getty Images for Nowadays )

Sono le parole toccanti del designer ucraino Jean Gritsfeldt, proiettate in un video-messaggio all’ultima edizione della Mercedes Fashion Week di Berlino, tenutasi a marzo scorso; lui non era presente perché a Kiev, accanto alla madre in un appartamento alla periferia della città ma la sua collezione ha sfilato lo stesso o meglio, non quella che il designer aveva in mente prima dello scoppio della guerra ma una sorta di manifesto per la pace ideato dopo l’invasione russa del suo Paese.

Perché decido di aprire la settimana della Fashion Revolution Week, di cui ci occupiamo ogni anno in questo periodo, proprio con Jean Gritsfeldt e la sua collezione?

Non solo perché è uno stilista ucraino che ha riversato nel proprio lavoro tutto il dolore e l’impotenza legati a questo atroce conflitto, non solo perché ha voluto restare sotto le bombe invece di mettersi in salvo, magari a Berlino, per essere presente al suo show, non solo perché ha ideato questa collezione insieme al suo team in fretta e furia, tra rifugi antiaereo e seminterrati, con le luci che andavano e venivano.

Ma anche perché questa collezione si è resa possibile grazie all’intervento di Fashion Revolution Germania e Sustainable Fashion Matterz, che in pochi giorni hanno messo insieme 30 volontari che, a Berlino, da scarti tessili, hanno cucito la collezione di Gritsfeldt.

“E’ stato un miracolo” dice il designer, che adesso si chiede come abbiano potuto realizzare tutto questo.

La sfilata, molto potente e suggestiva, ha visto in passerella abiti molto semplici, lineari e monocromatici, per rendere più visibili e d’impatto gli slogan stampati in ucraino e russo: amore, indipendenza, libertà e, naturalmente, pace.

Le modelle hanno gli occhi cerchiati di rosso o il viso lucido di lacrime o, l’immagine più forte di tutte: la vernice rossa che copre quasi per intero un top cropped e una gonna lunga con spacco laterale, con la scritta a contrasto ‘pace’.

Grazie a questa sfilata e al suo impatto mediatico, Jean Gritsfeldt ha trovato dei produttori in Europa per poter realizzare la collezione autunno/inverno 2022 e tutte le vendite andranno a una fondazione culturale in Ucraina per la ricostruzione post-bellica.

La collaborazione tra Fashion Revolution Germania, Sustainable Fashion Matterz con i volontari e il team di Gritsfeldt è un messaggio di pace e speranza e la conferma che ‘sostenibilità’, come scrivevo all’inizio della pandemia, quindi in un altro momento di difficoltà per tutti noi, “è un concetto davvero molto ampio, che si presta a tante interpretazioni e, almeno per quanto mi riguarda, ci rientrano in pieno termini come ‘gentilezza’, ‘altruismo’, ‘coerenza’, un senso di ‘fare bene e fare del bene’ che va di pari passo con l’essere umani, con l’umanità nella sua accezione compassionevole”.

Di cui, ora più che mai, abbiamo disperatamente bisogno.

L’immagine di copertina courtesy Sebastian Reuter/Getty Images for Nowadays

L’Up-Fashion di Francesca Marchisio, l’abito nell’abito

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Francesca Marchisio è un’altra eco-designer che seguiamo da un po’, ci piace la sua idea di abito trasformabile e reversibile, che racchiude più capi in uno, con un occhio al design industriale.

Il suo ultimo lavoro, la collezione autunno-inverno 2022 che ha sfilato ad Altaroma, ha inaugurato un nuovo progetto, Up-Fashion, nato per aggiungere nuove funzionalità al valore di un capo già esistente, con il concetto base che gli abiti sono espressione della nostra personalità e accompagnano la nostra evoluzione, quindi necessitano di cambiare e trasformarsi insieme a noi.

Up-Fashion, cui è stata appena dedicata una pagina nel sito della designer, è promosso e co-creato da Francesca Marchisio insieme ad altre donne di talenti, età e personalità diversi e si traduce in workshop pratici durante i quali i capi di ognuna vengono ridisegnati dopo un processo di empatia, una collaborazione creativa che segue la linea stilistica di Francesca ma al contempo estremamente personalizzata e unica.

Il risultato finale è la creazione di un nuovo modello, unito a tessuti e forme altrettanto nuovi ma che mantiene la sua essenza, conservando ricordi e storie.

Il primo workshop di Up-Fashion si è tenuto il mese scorso a Reggio Emilia presso l’atelier della designer, il secondo sarà a Torino a maggio, con data ancora da definirsi e anche in quest’occasione i partecipanti, attraverso una sessione teorica sul concetto di equilibrio tra forme e materiali, prenderanno consapevolezza del valore della trasformazione di quanto già esistente e in seguito potranno richiedere una proposta ‘up-fashion’ sul proprio capo.

E l’ultima collezione di Francesca Marchisio, dal titolo ‘Movement Ecocentrique’, è proprio, come dicevamo in apertura, il manifesto del concetto di ‘up-fashion’, di tessuti e abiti di qualità senza fine, trasformabili nel tempo, la messa in pratica dei valori della moda circolare ovvero modelli reversibili progettati per durare oltre le stagioni con fluidità di genere e di taglia, materiali sostenibili e recupero di giacenze.

‘Movement Ecocentrique’ è un invito a cambiare la nostra prospettiva da ‘Ego a Eco’; ci vestiamo per comunicare con gli altri e scegliamo i nostri abiti con un atto di consapevolezza, noi siamo ciò che indossiamo, noi siamo il ‘movimento’ per trovare nuovi equilibri: gonne scintillanti abbinate all’opacità confortevole dei gilet da pesca o dei coat oversize, la pelliccia in pura lana che rende reversibile ogni cappotto e che, se prodotta in modo responsabile e cruelty-free, è una fibra che può sostituire acrilici e poliestere.

E poi ecco la canapa, adatta anche in inverno per le sue proprietà termoregolatrici e il cotone ‘tela olona’, creato in Italia centinaia di anni fa, naturalmente resistente all’acqua e al vento grazie alla sua fitta armatura, mentre i pezzi unici ‘wastecouture’ sono realizzati con paillette di tessuto ritagliate da scarti di produzione.

Ultima cosa ma non meno importante, il progetto Up-Fashion era in realtà già presente nell’ultima collezione estiva di Marchisio e i capi realizzati sono stati poi indossati dai ballerini protagonisti del corto ‘The Movement’, che ha vinto e sta vincendo diversi riconoscimenti e che potete vedere qui sotto:

Scritto e diretto da Inês von Bonhorst e Yuri Pirondi – concetto e fashion design Francesca Marchisio

Tiziano Guardini ci racconta una fiaba

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Di Tiziano Guardini mi sono occupata fin dagli albori di questo blog; scoprirlo e seguire il suo percorso è stato ed è tuttora stimolante, lui eco-designer impegnato seriamente in una moda il più possibile sostenibile, attenta soprattutto all’aspetto cruelty-free.

Così eccoci a un nuovo capitolo della sua storia professionale, la collezione per il prossimo inverno, che già dal titolo, ‘La Fiaba’, ci porta in un mondo magico, in cui tutti noi vorremmo probabilmente vivere in questo terribile momento.

Un momento in cui sarebbe da scrivere una nuova storia, di un presente e un futuro diversi e ‘La Fiaba’ proprio a questo serve, a immaginarli e a poi a renderli concreti, i sogni che facciamo.

Ecco allora che le parole di questa ‘fiaba’ prendono forma e diventano abiti, metafora di un tempo che passa senza passare, come quello fiabesco, ma in cui gli insegnamenti del passato diventano tesoro per ciò che si costruisce, per ciò che si crea.

Alcuni dei capi realizzati per ‘La Fiaba’, i materiali e la tecnica per costruirli, come ad esempio i piumini, vengono da altri piumini e giacche a vento non più utilizzabili e ricondizionati, i cappotti sono in lana rigenerata e sulle loro superfici prendono forma nuove trame, paesaggi, connessioni.

La collezione diventa così una raccolta di fiabe illustrate, grazie anche alla mano dell’artista Luigi R. Ciuffreda, non nuovo a collaborazioni con Guardini.

“Creare e concretizzare progetti che mirano alla valorizzazione delle risorse, al preservarne la loro funzione sia nel breve ma soprattutto nel lungo periodo è quello che amo fare. Permette di riallinearmi alla natura in cui ogni cosa che produce ha un valore sempre” dice Tiziano Guardini “in questo caso abbiamo fatto di più del semplice upcycling, li abbiamo trasformati in arte, abbiamo creato dei ‘wearable painting’ che ci portano nel mondo delle fiabe”.

La conferma dell’impegno e dell’amore verso la natura viene anche da un evento cui Tiziano ha partecipato pochi giorni fa, il 21, che non era solo il primo giorno di primavera ma anche la Giornata Internazionale delle Foreste; il designer ha infatti presentato ‘Into the Forest’, capsule collection ispirata alle pulsioni vitali della foresta, rappresentata dalla cellulosa, materia del legno, trasformata in fibra o meglio Refibra.

Si tratta di Tencel by Lenzing, di cui abbiamo parlato più volte, un filato che nasce da foreste certificate e in questo caso prodotto con tecnologia Refibra, che si basa sull’impiego di una percentuale di materia prima rigenerata.

La collezione ‘Into the Forest’ sarà in vendita a partire dal 22 aprile, Giornata Mondiale della Terra, presso la boutique Banner a Milano, la stessa dove è avvenuta la presentazione dell’altro giorno.

Per Tiziano, utilizzare questi tessuti, ottenuti secondo un sistema che rispetta l’ambiente e soprattutto i nostri ‘polmoni verdi’, è un modo per fare pace con questi elementi naturali troppo spesso maltrattati, per dirgli “guardate, c’è chi si impegna per far andare meglio le cose”.

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