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Si avvicina l’appuntamento con il ‘Copenhagen Fashion Summit’…

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The Copenhagen Fashion Summit - courtesy of copenhagenfashionsummit.com

Mancano poco meno di dieci giorni al ‘Copenhagen Fashion Summit’, il più importate forum mondiale dedicato alla moda sostenibile; fin dalla sua inaugurazione, nel 2009, si è posto come obiettivo quello di impegnarsi per il cambiamento dell’industria del settore e quindi per un futuro migliore, invitando da tutto il mondo i più autorevoli speaker che intervengono e si confrontano sui diversi aspetti di un business che è diventato il secondo più inquinante dopo quello del petrolio.

Nella scorsa edizione tenutasi sempre a maggio, tra gli ospiti intervenuti c’erano ad esempio Vanessa Friedman, nota critica di moda del New York Times, Livia Firth, fondatrice di Eco Age, il designer Prabal Gurung e il CEO di Hugo Boss Mark Langer, mentre ISKO™, leader mondiale nella produzione di denim e main sponsor dell’evento insieme, tra gli altri, a Fashion for Good e C&A Foundation, aveva invitato dieci fashion designer emergenti, già selezionati per il ‘Denim Design Award’ dell’anno prima, a ripensare le proprie collezioni con una formula più green. Nell’edizione 2017 c’è stato anche il lancio di un report dal titolo ‘Pulse of the Fashion Industry‘, un resoconto che si ripeterà anche quest’anno, raccontando le performance etiche delle imprese e quantificando il potenziale di sostenibilità delle stesse per poi fornire loro dei ‘consigli’ atti a migliorarne i risultati.

Il ‘Copenhagen Fashion Summit’ di quest’anno si terrà i prossimi 15 e 16 maggio presso la Concert Hall della capitale danese e prevede un programma ricco di argomenti stimolanti che verranno affrontati in interventi, sessioni di approfondimento e tavole rotonde. Tra questi ‘Don’t mention the S-word’, una tavola rotonda sul fatto che la moda sostenibile sia ormai necessaria, ma considerata forse non ancora ‘cool’. Focus poi sulla Cina in un altro dibattito in cui si discuterà del comportamento dei marchi cinesi e del tipo di informazioni che vengono comunicate al numero crescente di consumatori interessati al tema della sostenibilità. E poi si parlerà di digitalizzazione che, insieme all’analisi avanzata e all’intelligenza artificiale, rappresenta una sfida difficile per il settore, ma anche un’opportunità per tracciare in tempi rapidi le catene di fornitura; dei progressi compiuti finora e sul futuro che ci aspetta riguardo all’economia tessile, cui poter applicare un modello circolare; delle modalità possibili per i marchi fashion del 21° secolo (speaker presente Stella McCartney) di gestire un’attività sostenibile e su come stabilire le priorità per le opportunità da affrontare. Il programma completo è comunque disponibile a questo link.

Per tutti noi che vogliamo un futuro più sostenibile per il nostro guardaroba e il nostro Pianeta, questi sono appuntamenti importanti, da seguire anche da lontano, quindi vi consiglio di visitare il sito e di tornare qui per gli aggiornamenti post-summit 😎

Fashion for Good: 15 start-up per una moda che fa bene

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Fashion for Good logo - courtesy of Fashion for Good

Questa è una notizia per chi ha ancora qualche dubbio che la rivoluzione green nell’industria della moda sia un fenomeno circoscritto; dall’ultima edizione di Fashion for Good-Plug and Play Accelerator, iniziativa promossa da Fashion for Good, piattaforma globale per l’innovazione sostenibile che promuove e finanzia le start-up più meritevoli, arrivano ben 15 innovazioni legate ad altrettante nuove start-up che promettono una vera rivoluzione nel settore fashion.

Le 15 start-up sono state selezionate tra centinaia di candidati provenienti da tutto il mondo e rappresentano le varie aree della filiera produttiva, dalle materie prime alternative ai nuovi modelli di business e ognuna deve avere in se il potenziale necessario per rimodellare definitivamente l’industria della moda. A sostegno dell’attività di sviluppo di ogni start-up, c’è “l’acceleratore” Fashion for Good Plug and Play, un servizio di tutoraggio effettuato dai partner e dai mentori dell’iniziativa che sono Adidas, C&A, Galeries Lafayette, Kering, Target e Zalando.

Ma vediamo da vicino alcune di queste start-up, che stanno già lavorando con i loro tutor nella sede di Fashion for Good ad Amsterdam per approdare il 14 giugno prossimo alla presentazione ufficiale delle proprie innovazioni davanti a investitori del settore:

  • Algiknit produce fibre tessili ricavate da una varietà di alghe, che possono essere lavorate a maglia o stampate in 3D per ridurre al minimo gli sprechi. La maglieria finale è biodegradabile e può essere tinta con pigmenti naturali;
  • BioGlitz produce il primo glitter biodegradabile al mondo. Basato su una formula unica a base di estratto di eucalipto, l’eco-glitter è anche compostabile;
  • circular.fashion ha creato un software che interconnette il design circolare, i modelli di vendita al dettaglio circolare e le tecnologie di riciclo a circuito chiuso. Ai capi creati con questo software viene attribuito un cartellino identificativo che permette una sorta di tracciabilità della filiera produttiva al contrario, per poter arrivare a centri di smistamento e di riciclaggio delle rispettive componenti materiche;
  • Flocus produce filati naturali, imbottiture e tessuti realizzati con fibre di kapok, un albero che può essere coltivato naturalmente senza l’uso di pesticidi e insetticidi in terreni aridi non adatti all’agricoltura, offrendo un’alternativa sostenibile all’alta produzione di fibre naturali come il cotone;
  • Frumat utilizza le mele per creare un materiale simile alla pelle; la pectina delle mele è un prodotto di scarto industriale che può essere utilizzato per creare materiali sostenibili totalmente compostabili pur essendo abbastanza resistenti da creare accessori di lusso. I materiali possono essere tinti naturalmente e conciati senza tecniche chimicamente intensive;
  • Good on You è un’app mobile che fornisce valutazioni etiche per circa 1.000 brand valutati in base al loro impatto su persone, ambiente e animali. È costruito su un solido sistema di valutazione che aggrega standard, certificazioni e fonti di dati in un punteggio semplice e accessibile per promuovere la trasparenza e consentire ai clienti di fare acquisti consapevoli.
  • I materiali Mango producono bio-poliestere biodegradabile che può essere utilizzato come alternativa sostenibile al poliestere attualmente utilizzato nell’industria della moda;
  • Nano Textile offre un’alternativa ai prodotti chimici leganti normalmente usati per fissare le finiture su un tessuto. La sua tecnologia incorpora le finiture direttamente nel tessuto utilizzando un processo chiamato ‘cavitazione’ e può essere applicata a una gamma di prodotti come finiture antibatteriche e anti-odoranti o idrorepellenti;
  • Orange Fiber produce tessuti naturali da derivati ​​degli agrumi; la fibra arancione viene prodotta estraendo la cellulosa dalle fibre che vengono scartate dalla pigiatura industriale e dalla lavorazione delle arance. Attraverso le tecniche nano-tecnologiche viene arricchita con oli essenziali di agrumi, creando un tessuto unico e sostenibile.

Per vedere tutte e 15 le start-up potete andare direttamente alla pagina della news in questione, ci sono innovazioni davvero importanti che auspichiamo vengano adottate presto dall’industria della moda.

Buon lavoro a tutti in quel di Amsterdam!

Nike, non solo sfide sportive

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Nike logo - courtesy of Nike, inc.

In quanto a strategie e ricerche nell’ambito della sostenibilità, anche i marchi sportivi stanno facendo da tempo la loro parte; oggi vorrei parlare di Nike perché per me è stata una vera e piacevole sorpresa scoprire che il colosso americano, primo produttore mondiale di accessori e abbigliamento sportswear, attua dai primi anni ’90 il programma Reuse-A-Shoe, che si occupa di raccogliere sneaker vecchie e usurate per trasformarle in Nike Grind, un materiale poi utilizzato da aziende leader nel settore della produzione di superfici sportive ad alte prestazioni come campi da tennis e da basket e piste di atletica, oltre che dalla stessa Nike per prodotti innovativi.

Nike shoes

Reuse-A-Shoe è frutto di una strategia mirata a ridurre l’impatto aziendale sull’ambiente, insieme alla quantità di scarpe che finiscono nelle discariche; si stima che Nike raccolga ogni anno oltre 1,5 milioni di paia di scarpe da riciclare, oltre a centinaia di tonnellate di scarti di fabbricazione. E non importa quanto vecchie o usate siano, anzi, il principio alla base del programma è che se le scarpe possono essere ancora utilizzate, meglio allora donarle a comunità o a singoli, altrimenti Reuse-A-Shoe è un’ottima alternativa alla discarica.

I modi per consegnare le scarpe usate sono due: o portarle presso un punto di raccolta Reuse-A-Shoe all’interno di uno store Nike (ovviamente informatevi se è presente il punto prima di recarvi con il materiale da consegnare) oppure spedirle all’impianto di riciclaggio della Nike, quello europeo si trova a Meerhout, in Belgio ma Nike non rimborsa le spese di spedizione, quindi è consigliabile portarle presso un punto vendita, se possibile. Ad ogni modo a questo link trovate tutte le info, compreso l’indirizzo esatto dell’impianto belga.

E poi c’è una vera e propria sfida che da quest’anno si va ad aggiungere al programma di sostenibilità ambientale che Nike porta avanti da tempo; si tratta del ‘Nike Material Recovery Challenge’, concorso pensato per tutti coloro che desiderano dare il proprio contributo allo sviluppo di nuove tecnologie per trasformare le vecchie scarpe in materiali innovativi, anche partendo dallo stesso Nike Grind di cui sopra. Quindi concorso aperto a designer ma anche a ingegneri che devono presentare la domanda entro il 1° maggio prossimo; entro agosto di quest’anno si saprà il vincitore dell’innovazione più innovativa (permettetemi l’allitterazione), che si porterà a casa un premio di 50.000$, oltre a una collaborazione con Nike per lo sviluppo della proposta vincente.

Nike fa inoltre parte del Textile Exchange, una delle più importanti organizzazioni non-profit che promuovono a livello internazionale lo sviluppo responsabile e sostenibile nel settore tessile; nell’ultima conferenza annuale, tenutasi nell’ottobre scorso, il marchio sportivo si è impegnato, insieme ad altri 35 brand, a utilizzare cotone sostenibile al 100% entro il 2025.

Siccome però questo è un blog che parla di sostenibilità a 360°, non posso non ricordare che Nike è anche uno dei marchi che è stato spesso citato, soprattutto in passato, per lo sfruttamento del lavoro minorile, oltre che per i metodi di produzione nelle fabbriche d’oltreoceano con cui ha contratti commerciali. L’ultima inchiesta su The Observer, risalente all’anno scorso, rivelava condizioni malsane nelle fabbriche cambogiane, che provocavano svenimenti tra le operaie, non solo per Nike ma anche per Puma e Asics. Interpellata dal giornale, Nike ha poi assicurato di aver provveduto a installare dei condizionatori d’aria dopo aver scoperto che le temperature superavano i 30 gradi centigradi. Ma anche l’uso di prodotti chimici è tra le cause di malori più o meno gravi.

Quindi, ecco i due lati della medaglia di un marchio globale storico e amato, che se vuole davvero vincere la sfida alla perfetta sostenibilità, oltre a riciclo, innovazione e concorsi, deve avere come priorità il benessere di chi i suoi prodotti li fa tutti i giorni senza poterne godere alcun beneficio.

E’ aprile e si avvicina la settimana della Fashion Revolution!

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Fashion Revolution - #Whomademyclothes

Ci siamo. Rivoluzionari fashion di tutto il mondo unitevi e rispondete alla chiamata del movimento globale più trendy che c’è, quello che, nato in Inghilterra nell’aprile 2013 all’indomani del crollo dell’edificio commerciale Rana Plaza, in Bangladesh, in cui morirono migliaia di operai tessili, è cresciuto e si è diffuso come un’onda, portando con se cambiamenti importanti nell’industria della moda. Fashion Revolution festeggia il suo quinto compleanno e, in questo mese di aprile, precisamente dal 23 al 29 prossimi, si appresta ad aggiungere un altro tassello per la costruzione di un futuro in cui tragedie come quella di Rana Plaza non accadano più, come dice anche una delle sue fondatrici, la designer Orsola de Castro.


Fashion Revolution campaign


Come movimento globale, Fashion Revolution ha sedi e coordinatori in tutto il mondo, per l’Italia c’è la stilista Marina Spadafora che dice: “Scegliere cosa acquistiamo può creare il mondo che vogliamo: ognuno di noi ha il potere di cambiare le cose per il meglio e ogni momento è buono per iniziare a farlo”. Per l’ultima settimana di aprile sono quindi previsti eventi organizzati in tutti i Paesi che hanno aderito al movimento; ne citiamo alcuni ma potete trovare la lista completa a questo link:

  • in Italia, il 24 aprile alle ore 21.30 presso il Cinema Teatro San Rocco di Seregno, nell’hinterland milanese, sarà proiettato il film documentario ‘The true cost’ di Andrew Morgan con introduzione alla visione e dibattito finale. È prevista una raccolta fondi a offerta libera destinata interamente a sostenere l’organizzazione Fashion Revolution;
  • in Scozia, a Edimburgo, ‘1138’ (come il numero delle vittime di Rana Plaza), sarà una serie di eventi compresi in un programma unico che cominceranno il 23 aprile alle 19.00 ora locale e andranno avanti fino alle 19.00 del 25;
  • a Londra, il 24 aprile dalle 18.30 ora locale Safia Minney, la fondatrice del marchio eco People Tree, dibatterà di fashion in termini di diritti dei lavoratori e sostenibilità ambientale con esperti del settore…

…e così via per una lista davvero infinita di eventi gratis e a pagamento.

Un altro gesto che Fashion Revolution invita a fare è di indossare un indumento al contrario, scattare una foto e postarla sui social chiedendo al brand in questione ‘Chi ha fatto i miei vestiti?’, un’azione piccola ma significativa che responsabilizza il consumatore portandolo a farsi e a fare delle domande, coinvolgendo l’intera filiera produttiva dietro il capo d’abbigliamento.


Fashion Revolution San Francisco


È importante comunque sapere che Fashion Revolution opera tutto l’anno e che invita i consumatori a fare altrettanto, sia con azioni che atteggiamenti di apertura mentale e di curiosità. Un altro strumento utile è sicuramente la Fanzine del movimento di cui per ora ho soltanto il #1, mentre attendo il #2 che verrà forse ristampato. ‘Money Fashion Power’ è il titolo della prima rivista, copertina di un bel giallo carico con immagine a contrasto di uno scontrino, 70 pagine circa di poesie, illustrazioni, giochi, studi e reportage sulla produzione dei capi d’abbigliamento, sul come, sul dove, sul perché, il tutto stampato ovviamente su carta 100% riciclata.

Fashion Revolution #1 Fanzine

Uno dei messaggi più importanti che trapela dalle pagine della rivista ma in generale da tutte le azioni e gli eventi promossi dal movimento è che come consumatori deteniamo un grande potere, un potere che si esprime nelle scelte di acquisto che facciamo tutti i giorni e i marchi, consapevoli di questo, ci seguono e ci ascoltano. Se non ce ne interessiamo, se ad esempio non ci chiediamo in quali condizioni vivono o quanto sono retribuite le persone che fanno i nostri vestiti, diventiamo complici della loro povertà e del loro sfruttamento.

Fashion Revolution #1Fanzine poem

Finisco spesso i miei post parlando di quanto sia importante che ognuno di noi, nel proprio piccolo, faccia la sua parte; ma non è forse così che nascono le più grandi rivoluzioni?

Versace: basta con le pellicce

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Donatella Versace - photo by David Shankbone

La notizia gira in rete già da qualche ora e arriva da una fonte attendibile ovvero un’intervista che Donatella Versace ha appena rilasciato a Luke Leitch su ‘1843’, il magazine online di ‘The Economist’; sembra proprio che anche la Maison della medusa andrà ad aggiungersi ai marchi deluxe che hanno rinunciato alla pelliccia animale, gli ultimi in ordine di tempo Armani, Gucci e Michael Kors.

L’intervista, che ripercorre soprattutto gli ultimi 20 anni della vita privata e professionale della Versace, dalla morte cioè del fratello Gianni, parla soprattutto di cambiamenti ed è in questo senso che rientra l’affermazione della direttrice creativa del marchio sul rifiuto di utilizzare pellicce naturali nelle sue collezioni: “Pelliccia? Ne sono fuori. Non voglio uccidere animali per fare moda. Non è giusto“, così dice Donatella a Leitch che subito dopo l’affermazione della stilista esprime egli stesso la propria incredulità in quanto, al momento della stesura dell’articolo, il sito del brand parlava ancora di “cappotti impreziositi di pelliccia da far girare la testa”.

Ciò che ci auguriamo è che alle parole di Donatella Versace seguano fatti concreti perché il marchio è stato per anni sinonimo di utilizzo di pelliccia, tra cui visone e coniglio, tanto da essere spesso bersaglio delle proteste degli animalisti tra cui PETA, che in passato ha effettuato vari blitz e interruzioni di sfilate.

Versace è un marchio di lusso massicciamente influente – ha dichiarato Claire Bass, direttore esecutivo della divisione britannica di Humane Society International (HSI) – la sua decisione di smettere di usare la pelliccia dimostra che la moda etica e sostenibile non è mai stata tanto influente come oggi“.

Che Donatella Versace abbia fatto questa rinuncia perché ci crede veramente o soltanto perché lo stanno facendo molti suoi colleghi, poco importa. A noi importa che sia vero.

Jak&Jil, da fashion blog a mentore della moda sostenibile

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Sustainable Fashion Award - courtesy of Jak&Jil

Per chi non conosce Jak&Jil, basta sapere che è stato, insieme a ‘The Sartorialist’, uno dei primi blog di moda in assoluto; fondato nel 2005 dal fotografo canadese Tommy Ton, conosciuto oggi per i suoi servizi fotografici su Style.com e GQ.com, il blog si poneva come un sito di street style che copriva inizialmente solo la zona di Toronto e che poi si è ampliato fino a diventare un fenomeno globale, con follower da ogni parte del mondo. Oggi Jak&Jil, dopo essere stato un modello per tanti fashion blog a venire, è diventato un e-commerce pluripremiato presente in dieci Paesi, tra cui anche l’Italia.

Jak&Jil, che oggi fa parte di Mucca, start up che è fashion mall ma anche talent scout, è diventato una sorta di mecenate alla ricerca di talenti emergenti e consolidati nel settore della moda sostenibile, perciò ha ideato un concorso, il ‘Sustainable Fashion Award’, che premia appunto quegli stilisti che stanno adottando o hanno già adottato pratiche responsabili che comprendano materiali, tecniche di lavorazione, impatto ambientale e impiego della manodopera, tutto questo per un design di alta qualità.

In dettaglio, tra le pratiche idonee rientrano il fatto a mano, la produzione locale, lo sviluppo di un commercio equo, il design intelligente, la produzione di zero scarti di tessuto, il benessere degli animali, l’utilizzo di materiali riciclati, ‘upcycled’ od organici e la considerazione dell’intero ciclo di vita del prodotto, quindi dalla sua creazione al suo ‘smaltimento’.

Oltre alle regole di cui sopra, il designer deve aver completato una collezione o un progetto sostenibili; per progetto si intende anche un solo capo ma che rispetti almeno uno dei criteri elencati. Il designer vincitore riceverà un premio in denaro di 3.000 dollari, mentre altri 3.000 dollari verranno consegnati a uno dei partner ONG del ‘Sustainable Fashion Award’ scelto dal designer stesso.

La presentazione della domanda consiste in una descrizione del progetto di massimo 1500 caratteri in cui si devono soprattutto spiegare le ragioni della sua sostenibilità, poi vanno citati i nomi di coloro che partecipano al design e alla produzione. Inoltre sarà importante allegare una o più immagini del progetto in cui si descrivono i dettagli, quindi più dettagli più fotografie. Potete comunque trovare tutte le informazioni necessarie sulla pagina del concorso, insieme ovviamente alle indicazioni per registrarsi. C’è tempo fino alle 23.59 del 31 agosto prossimo e l’iscrizione è totalmente gratuita! Al termine del periodo di presentazione del progetto, ci sarà una prima scrematura del materiale presentato, legata al rispetto dei criteri di sostenibilità e delle altre regole del concorso, dopodiché una giuria internazionale di altissima qualità giudicherà i progetti selezionati secondo i principi di innovazione, design, qualità tecnica e, appunto, sostenibilità.

Riguardo alla giuria lasciatemi dire, con un pizzico di orgoglio, che tra i nomi eccellenti c’è anche quello di Sass Brown, la giornalista inglese esperta di moda etica che è stata la prima ospite del blog per ‘L’intervista del mese’!

Last but not the least, eco-à-porter diventa con questo post uno dei partner minori del ‘Sustainable Fashion Award’. E ne va fiero.

 

 

‘Fa’ la cosa giusta!’ : il mondo è bello perché eco

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Fa' la cosa giusta - 15° edition

Chiudete gli occhi e immaginate tutto ciò che può essere green, eco, bio. Fatto? Bene, tutto ciò e probabilmente pure qualcosa in più lo troverete a Milano, dal 23 al 25 marzo prossimi a ‘Fa’ la cosa giusta!‘, la fiera italiana del consumo critico e degli stili di vita sostenibili. Un’intera filosofia di vita infilata in un capannone, spalmata in 32.000 metri quadrati e rappresentata da centinaia di espositori. L’evento, organizzato dalla casa editrice ‘Terre di Mezzo’, compie quest’anno quindici anni, un compleanno importante che gli organizzatori hanno voluto festeggiare con l’ingresso gratuito per tutti. Nessuna scusa dunque per gli appassionati ma anche per i curiosi che avranno davvero l’imbarazzo della scelta.

Ricco come sempre il programma nelle aree tematiche tradizionali, come eco-moda e artigianato, i settori che più ci interessano. Oltre a tanti marchi di abbigliamento e di calzature sostenibili tra gli espositori, anche quest’anno si rinnoverà l’offerta di workshop e incontri per imparare a realizzare accessori moda, oltre che quaderni con tecniche artigianali e di riuso. Nel laboratorio di ‘Riciclando.it’ si potranno ad esempio creare delle utilissime pochette con materiale di recupero, mentre ‘Artedì’ farà scoprire come realizzare piccoli accessori riutilizzando oggetti insoliti. Gli artigiani della cooperativa ‘Parallelo’ insegneranno invece a realizzare una sacca in tessuto personalizzata con stampa serigrafica oppure un quaderno artigianale rilegato con la tecnica giapponese e la stampa linografica su carta (entrambi i laboratori sono su prenotazione all’indirizzo info@officinacasona.com).

Restando nell’ambito ‘moda ed estetica’, dopo il successo dell’anno scorso, gli esperti de ‘La Saponaria’ propongono nuovi laboratori per realizzare da sé cosmetici naturali: dalla crema addolcente all’acido ialuronico, fino allo shampoo solido alla birra. Persino i meno esperti potranno cimentarsi nell’incontro dedicato all’autoproduzione di “cosmetici per negati”, in cui verranno realizzati 10 prodotti in un’ora: creme viso e corpo, scrub, maschere capelli, shampoo, bagnodoccia e sapone liquido mani.

Non solo moda e bellezza comunque: tra le novità del 2018 un padiglione intero dedicato alla formazione dei più piccoli e una grossa finestra sulla cucina nazionale e i presidi alimentari locali, in concomitanza col progetto del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali che ha proclamato questo come anno del cibo italiano. Non mancheranno i laboratori creativi, in cui ci si metterà ai fornelli, ma nemmeno gli appuntamenti culturali, in cui si discuterà di futuro, sostenibile ovviamente. Verranno presentati libri ed esposizioni artistiche, ci saranno laboratori teatrali e musicali, si parlerà di benessere femminile e salute psicologica.

L’associazione animalista LAV, presente per la prima volta a ‘Fa’ la cosa giusta!’, porterà in fiera un percorso di realtà virtuale per sensibilizzare sulle condizioni negli allevamenti intensivi e ‘Dalla parte degli animali’, una mostra che narra 40 anni di battaglie e attività svolte per migliorare il rapporto tra esseri umani e altre specie: dalle campagne contro le pellicce, a quelle per un circo senza animali, fino alla lotta alla caccia, con l’attuale campagna #bastasparare.

Insomma, ‘Fa’ la cosa giusta!’ è la dimostrazione della varietà e della complementarietà dell’universo sostenibile, un mondo che comincia a diventare familiare a molti, spogliandosi di quella maschera chic e elitaria che per troppo tempo ha nascosto il suo vero volto. Quello sociale. E solidale.

Un cambiamento che sembra essere stato recipito a più livelli. Non solo dai mezzi di comunicazione, ma anche dalla politica. Molte regioni italiane hanno deciso di sostenere l’iniziativa.

E noi di eco-à-porter, ovviamente, ci saremo!

Novella Di Paolo

 

G-Star Raw e Pharrell Williams lanciano il jeans più sostenibile di sempre

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Pharrell Williams presents the G-Star RAW its most sustainable jeans

La sfida era stata lanciata già qualche tempo fa da Pharrell Williams in persona, sì proprio lui, il cantante, ma anche co-proprietario dal 2014 del marchio olandese di denim G-Star RAW che, una manciata di giorni fa, ha ufficialmente lanciato sul mercato il jeans più eco che c’è, l’Elwood RFTPi. Per dirla con una parola, anzi con una sigla, la G-Star ha messo a punto un jeans che ha ottenuto il livello oro della C2C, Cradle to Cradle certified™, in italiano dalla culla alla culla, la certificazione che valuta la riduzione dell’impatto ambientale nei processi di produzione industriale. In sostanza Pharrell e i suoi si sono dati da fare per migliorare tutto quello che si poteva migliorare in un settore dell’abbigliamento che è uno dei meno ecologici in assoluto.

E non hanno tralasciato niente: dalla materia prima, ai rivetti, al packaging.

Per il lavaggio, una delle fasi più importanti nella realizzazione dei pantaloni perché conferisce al denim le principali caratteristiche visive, ma anche più inquinante e dannosa per l’ambiente e per i lavoratori, la G-Star ha ridotto il consumo di acqua dai canonici settanta ai dieci litri per pantalone. Il processo manuale di sabbiatura, inoltre, è stato sostituito da tecnologie laser e all’ozono che permettono di evitare l’utilizzo di determinate sostanze tossiche.

Il cotone è organico al cento per cento, prodotto cioè senza l’uso di pesticidi e utilizzando il 91% di acqua e il 62% di energia in meno, con il conseguente dimezzamento di emissione di anidride carbonica. Ridotte, grazie alla collaborazione con aziende esterne, anche le sostanze chimiche nella realizzazione del caratteristico pigmento indaco, il famoso blue jeans. Completamente ecologici poi, bottoni, cerniere e altre rifiniture che finora hanno impedito il riciclo completo dei jeans. Persino le etichette sono realizzate con poliestere riciclato e nelle confezioni non c’è traccia di plastica ma solo di carta e cartone certificati.

Il jeans G-Star RAW più sostenibile di sempre Credits: G-Star RAW

Inutile dire che il brand non si è dimenticato degli operai, migliorandone le condizioni di lavoro, spesso al centro di scandali giornalistici perché estremante scadenti, grazie alla collaborazione con partner che operano direttamente nelle nazioni di produzione, come ad esempio in Vietnam.

E se tutto ciò non bastasse, l’azienda mette a disposizione di altri produttori tutte le risorse e le competenze messe a punto nel corso degli ultimi anni; perché, si legge sul sito, la sostenibilità funziona solo se condivisa. Certamente la competizione a chi è più bravo o arriva prima fa parte del gioco di marketing, così come l’auto-consacrazione. Inoltre, si sa, gli affari sono pur sempre affari.

La bella notizia comunque rimane. Perché fare a gara a chi diventa più ecologico non può che portare buoni risultati: un ambiente più sano e un mondo più etico per tutti.
E se Pharrell vuole indossare il costume da supereroe faccia pure, a noi basta che sia 100% sostenibile, come i suoi nuovi jeans.

Novella Di Paolo

Primark aderisce alla campagna #GoTransparent

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A Primark shop in Hannover

Circa un mese fa ho parlato della campagna #GoTransparent, un’iniziativa lanciata da Human Rights Watch e International Labour Rights Forum insieme a Clean Clothes Campaign (in Italia Campagna Abiti Puliti), che chiedeva a diversi marchi d’abbigliamento e di calzature di pubblicare informazioni sulle fabbriche, compresi gli indirizzi e il numero di lavoratori, da cui provengono i loro prodotti. Molti dei marchi coinvolti hanno risposto prontamente alla richiesta, rendendo pubblica la propria catena di fornitura, mentre altri ovvero Forever 21, Urban Outfitters, Walmart, Primark e Armani si sono dimostrati più reticenti.

Fino a qualche giorno fa quando Primark, brand irlandese di grandi magazzini che ha sedi in tutta Europa (recentemente ha aperto anche in Italia) e negli Stati Uniti, ha finalmente aderito alla campagna pubblicando un elenco di tutti i fornitori collegati alla sua attività, con nomi e indirizzi di oltre mille fabbriche in 31 Paesi, insieme al numero di dipendenti che lavorano in ogni fabbrica e alla divisione di genere tra i dipendenti.

Paul Lister, a capo dell’Ethical Trade Team di Primark, ha dichiarato all’agenzia di stampa tedesca Reuters che i motivi della reticenza erano dovuti a questioni di concorrenza ma è certo che le pressioni ricevute dagli attivisti che, oltre a raccogliere più di 70.000 firme con #GoTransparent, hanno portato negli store del marchio delle scatole dorate con le firme raccolte, hanno sortito il loro effetto. “Primark finora non aveva mai rivelato informazioni sui siti produttivi dei propri fornitori, ritenendo che ciò potesse costituire per l’azienda un vantaggio commerciale. Considerando, però, che il 98% della fabbriche che producono per Primark lo fanno anche per altri brand e guardando anche al numero di retailer che rendono pubbliche informazioni sui loro fornitori, abbiamo deciso di condividere le nostre informazioni”. Queste le parole esatte di Lister che in passato è stato interpellato diverse volte per accuse rivolte al gigante irlandese della grande distribuzione, accuse che  riguardavano lo sfruttamento del lavoro minorile, soprattutto dopo l’uscita di un documentario della BBC intitolato ‘Primark: on the rack’. Ma da un’analisi approfondita il filmato non sembrava autentico per delle incongruenze, tanto che il canale televisivo si è dovuto scusare con il marchio per la cattiva pubblicità.

Ad ogni modo, ciò che Primark oggi rivendica non è solo di avere partner come l’Ethical Trading Initiative (ETI), ente britannico impegnato nella difesa dei diritti dei lavoratori in tutto il mondo e come il Better Work Programme dell’International Labour Organization (ILO), che si occupa del controllo degli standard industriali, ma anche che le fabbriche impegnate nella realizzazione dei suoi prodotti devono dimostrare, per il primo anno di collaborazione, di poter mantenere gli standard etici richiesti, così come gli standard commerciali in aspetti quali la qualità e la puntualità delle consegne.

Per avere comunque maggiori informazioni sulle politiche sostenibili di Primark potete andare sul sito del marchio alla voce ‘codice etico’, mentre aspettiamo al varco gli altri quattro brand che non hanno ancora risposto alla domanda “chi ha fatto i miei vestiti?”.

Giù il sipario sulla Eco Fashion Week di Vancouver

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eco fashion week photo: eco fashion week IG account

È di pochi giorni fa la notizia che la Eco Fashion Week di Vancouver, con sede anche a Seattle, chiuderà i battenti, anzi, li ha già chiusi, dato che la 13° edizione, prevista per il prossimo aprile, non si farà.

Un vero peccato, dato che la manifestazione, che faceva capo all’omonima organizza,ione no-profit fondata nel 2010 dall’eco-imprenditrice Myriam Laroche, è stata non solo la prima nel suo genere ma ha anche rappresentato negli anni una piattaforma di lancio per più di 160 designer sostenibili provenienti da oltre 15 paesi, oltre ad aver educato e guidato i settori del tessile e dell’abbigliamento ad un approccio più responsabile e sensibilizzato i consumatori verso modalità di acquisto e fruizione dell’abbigliamento più etiche e rispettose dell’ambiente. La ‘Eco Recipe‘, l’eco-ricetta, come la chiamavano all’interno dell’organizzazione, consisteva proprio nel fornire ad aziende, marchi e individui gli ingredienti base per praticare la sostenibilità nell’ambito del fashion.

I motivi della chiusura della Eco Fashion Week canadese sono dovuti alla mancanza di supporto economico; in una recente intervista sul ‘Vancouver Sun’, Myriam Laroche aveva proprio lamentato il mancato sostegno da parte dello Stato e della città stessa, restii a contribuire, se non in minima parte, alla sopravvivenza dell’evento: “Non avrei mai pensato che avrei dovuto convincere qualcuno a sostenermi e questa è la sensazione che ho avuto alla fine – che dovevo cioè convincere i partner che il nostro era un evento serio e che ci eravamo impegnati per le giuste ragioni”. Uno sfogo amaro e comprensibile.

Myriam Laroche si è dichiarata comunque orgogliosa e soddisfatta del lavoro portato avanti in questi anni con l’organizzazione e che, da parte sua, continuerà a sostenere e condividere il più possibile il messaggio legato alla sostenibilità che, per diffondersi a livello globale, deve partire individualmente, da ognuno di noi.

Oggi sono due mesi che questo blog è aperto e una delle cose che ho sentito più spesso ripetere da designer e in generale addetti al settore della moda sostenibile è proprio questo: che è dal singolo che devono partire sforzi e volontà per far sì che un modo più giusto di pensare e fare la moda diventi comune, condiviso.

Mi auguro che questo blog aiuti, in questo senso.

Grazie alla Eco Fashion Week di Vancouver per averci provato ed esserci, in parte, riuscita.

 

 

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