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Via al progetto ‘Stand up’: c’è anche il Museo del Tessuto di Prato

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Nell’ultimo post abbiamo parlato del fiorire di tante start up impegnate nella moda sostenibile, portando l’esempio di ‘Good Sustainable Mood’, entrata nell’acceleratore di ‘Le Village by CA’; perché se da un lato c’è tutto questo fermento progettuale e innovativo, ci vuole che dall’altro ci sia chi sostiene e investe. Oltre agli hub di innovazione ci sono anche bandi e progetti a sostegno di progetti orientati alla moda green, come ‘Stand Up’, finanziato dall’Unione Europea.

‘Stand Up – Azione sul Tessile Sostenibile per lo Sviluppo e il Networking di imprese di economia circolare nel Mediterraneo’, ideato nell’ambito del Programma ENI-CBC MED (programmi di cooperazione transfrontaliera che riguardano le regioni che si affacciano sul Mediterraneo), si focalizza sul supporto a imprese e imprenditori eco-innovativi nel settore tessile-abbigliamento.

Il progetto si pone l’obiettivo di fornire un ampio range di soluzioni e strumenti innovativi, come training, consulenze tecniche e di design, supporto finanziario, opportunità di mercato, trasferimento tecnologico, con l’obiettivo di stimolare la nascita e la crescita di imprese e di creare opportunità di impiego nell’area mediterranea e al contempo di ridurre l’impatto ambientale del settore.

I Paesi mediterranei coinvolti nel progetto ‘Stand Up’ saranno Egitto, Italia, Libano, Spagna, Tunisia; circa 200 start-up e aziende giovani beneficeranno del progetto, mentre pari opportunità saranno assicurate a donne e giovani imprenditori tra i 25 e i 35 anni).

In particolare ‘Stand Up’ organizzerà un programma di training e supporto tecnico – stilistico per permettere alle imprese di svilupparsi e crescere, offrirà supporto finanziario attraverso una serie di voucher, aggregherà e stimolerà il mercato di prodotti e servizi ecosostenibili attraverso una piattaforma aperta per l’ innovazione, supporterà il trasferimento tecnologico attraverso un marketplace, sosterrà la protezione dei diritti intellettuali attraverso la creazione di una comunità virtuale, stimolerà il cambiamento delle politiche, lancerà una campagna di consapevolezza sull’importanza della produzione e del consumo sostenibile nel settore Tessile e Abbigliamento e un premio all’eco-innovazione.

E il Museo del Tessuto di Prato parteciperà a ‘Stand Up’ svolgendo il ruolo di responsabile della comunicazione istituzionale; oltre a ciò, prenderà parte attivamente a tutte le attività previste sui territori del partenariato, con un’azione di sensibilizzazione e coinvolgimento delle aziende del distretto tessile abbigliamento di Prato e della Toscana.

Soddisfatto Francesco Marini, Presidente della Fondazione del Museo: “Stand Up! offrirà servizi innovativi alle piccole e medie imprese della nostra area – con particolare attenzione alle start up, alle aziende di recente costituzione e alle imprese gestite da giovani 25 -35 anni e da donne, con l’obiettivo di rafforzare l’innovazione, la sostenibilità, l’approccio circolare del comparto. Per il nostro Museo è un passo importante, in quanto conferma la nostra natura di istituzione culturale collegata al mondo delle imprese, fortemente proiettata nel presente e nel futuro del nostro settore”.

Gucci prova a vivere ‘Off The Grid’

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Ormai è una certezza: il Covid e tutto ciò che ha comportato hanno dato un forte scossone al sistema moda e i risultati si stanno già vedendo. Da un lato una crisi profonda delle catene di fast fashion con negozi chiusi, fatturati ai minimi storici, stock accumulatisi nei magazzini, dall’altro una presa di posizione dei marchi del lusso, decisi a cambiare radicalmente approcci e modalità produttive (abbiamo già parlato del manifesto Open Letter to the Fashion Industry voluto da Dries Van Noten) verso una più spiccata sostenibilità.

In questo senso anche Gucci manifesta già da un po’ l’intenzione di spostarsi verso una produzione sempre più etica, attenta all’ambiente e ai diritti dei lavoratori; la loro piattaforma Gucci Equilibrium è nata proprio per spiegare e fornire aggiornamenti sulle pratiche sociali e ambientali del marchio con link diretti alle policy dell’azienda e del gruppo nel suo complesso.

Il direttore creativo di Gucci, Alessandro Michele, neanche un mese fa, ha annunciato di voler eliminare tre appuntamenti dal calendario delle sfilate perché “fare 5 show non è più accettabile”; anche per Michele è arrivato il momento di rallentare dando “ossigeno anche ai piccoli, perché il sistema permette di correre solo ai grandi”.

Conferma della direzione presa è ‘Gucci Off The Grid’, la prima linea sostenibile del marchio realizzata utilizzando solo materiali riciclati biologici provenienti da materiali rinnovabili; la collezione, che comprende articoli ready-to-wear, accessori, calzature e valigeria, tutti genderless com’è nello stile di Michele, ha una testimonial d’eccezione, Jane Fonda, che a 82 anni non perde il suo piglio combattivo dedicandosi alla lotta ambientale (qualche mese fa si era fatta arrestare per aver protestato contro il cambiamento climatico). 

Uno dei materiali utilizzati per la collezione è Econyl, il nylon rigenerato prodotto dall’italiana Aquafil, ormai scelto da moltissimi marchi sia per gli accessori come borse e zaini, sia per abbigliamento e swimwear.

E anche l’ambientazione della campagna di ‘Gucci Off The Grid’ è a tema, con una comunità che si trasferisce in una capanna sugli alberi nel cuore di una metropoli circondata da grattacieli di cemento e vetro provando a vivere, appunto, ‘off the grid’.

Della collezione Alessandro Michele dice: “ho immaginato che potessimo costruire tutti insieme, un po’ come dei bambini che giocano nel parco, una casa sull’albero nel centro di una metropoli, perché tutti noi abbiamo bisogno di costruire questa casa o di scoprire che esiste il pianeta anche dove ci sembra che non ci sia o che sia lontano”.

I 7 vizi capitali del fast fashion

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Apro questo mese di giugno, che avvia la nostra vita verso la cosiddetta fase 3 del post-pandemia (un ulteriore passo verso la normalità con l’apertura fra regioni) toccando nuovamente un argomento affrontato sotto vari aspetti in queste ultime settimane di uscita dall’emergenza.

Mi riferisco ai cambiamenti cui sta andando incontro il settore moda, alle riflessioni e alle proposte che stanno emergendo dagli stessi addetti, che siano designer, retailer, produttori, come ad esempio la lettera aperta all’industria della moda di Dries Va Noten di cui abbiamo parlato pochi giorni fa.

Interessante a questo proposito lo studio condotto da Espresso Communication per Bigi Cravatte Milano su oltre 20 testate internazionali di tendenze e attualità nei campi della moda, del design e del lifestyle e dedicato al fenomeno del ‘back in time’, trend che mira a riportare la moda a un passato virtuoso, riscoprendo i valori di un tempo, per riparare ai danni causati dai 7 vizi capitali del fast fashion. 

La quarantena ha costretto tutti noi a rallentare il passo, aprendo la porta a uno stile di vita più semplice, fatto quasi esclusivamente di acquisti necessari, meno sprechi e più tempo trascorso in famiglia. Ed è così che, amplificando un trend già in atto da qualche tempo, si comincia a dare ulteriore importanza all’artigianato e ai prodotti realizzati a mano e in modo sostenibile.

L’idea sarebbe quella, quindi, di riscoprire il passato e riprenderne alcuni valori, cogliendo l’occasione per rimediare ai vizi capitali cui parte del fashion ha ceduto negli ultimi anni:

  • superbia, ovvero pensare di essere più importanti del Pianeta, occorre quindi ripensare il sistema di produzione, preferendo tessuti e lavorazioni compatibili con la salute della Terra e dei suoi abitanti;
  • avarizia, cioè farsi guidare esclusivamente dal profitto e optare per manifatture a basso prezzo; preferire lavorazioni industriali a quelle manuali e di qualità può non essere la scelta vincente, dato che oggi l’artigianalità rappresenta un valore aggiunto, capace di guidare le scelte del consumatore e incrementare le vendite;
  • lussuria, che significa cercare di soddisfare i piaceri dei clienti con capi fatti per non durare. Riscoprire invece abiti dimenticati e riadattarli è per esempio un trucco utile per rinnovare il guardaroba senza fare nuovi acquisti;
  • invidia, ovvero desiderare di essere come chi produce tanto, non come chi produce bene. Da tempo sono diversi i brand che hanno optato per massicce delocalizzazioni, mentre la produzione locale tornerà protagonista di una fase di espansione e gli atelier artigianali vivranno un momento di rinascita. Parola chiave sarà glocalizzazione, un approccio che consiste nel mantenere le specificità locali, aprendosi però a un mercato globale;
  • gola, cioè produrre un’eccessiva quantità di capi durante il corso dell’anno. Il possibile antidoto potrebbe essere di creare una sola collezione per stagione e riproporre le rimanenze degli anni precedenti;
  • ira, arrabbiarsi per l’emergenza in corso: in questo momento l’imperativo è non limitarsi a osservare la situazione in corso con frustrazione, ma utilizzare questo tempo per organizzarsi e costruire un nuovo rapporto con i clienti;
  • infine accidia, resistenza al cambiamento: nonostante le evidenze che mostravano le debolezze del fast fashion, il settore non ha modificato le proprie abitudini negli ultimi anni. Ed ecco che ora la moda si vede costretta a superare questa avversione al rinnovamento e a costruire un futuro diverso.

Puntare quindi su glocalizzazione, sostenibilità, artigianalità, coerenza e tradizione, guardando al passato ma per costruire un futuro diverso, può rappresentare il modo giusto e più rispettoso per ripartire dopo questo terribile stop.

La foto di copertina è di Will Buckner

Il vento del cambiamento soffia sul post-pandemia

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Toni Maticevski's catwalk Photo: Peter Duhon

Dei possibili scenari post-pandemia che il mondo della moda si troverà, anzi, si sta già trovando davanti, ne abbiamo parlato citando l’intervento di Simone Cipriani sul magazine online Drapers; lì ci si riferiva soprattutto alla pesante ricaduta della pandemia sulle economie dei Paesi più poveri, degli ordini annullati, delle tonnellate di prodotti ammassate dentro i magazzini in attesa della ripresa dei flussi commerciali.

Ma naturalmente la pandemia ha portato alla riflessione anche i designer, i CEO e i proprietari dei grandi marchi internazionali che in questi ultimi drammatici mesi si sono espressi per un cambiamento radicale del sistema di cui loro stessi devono accettare giocoforza i meccanismi.

Il primo a uscire allo scoperto dallo scoppio della pandemia è stato Giorgio Armani con la sua lettera aperta dei primi di aprile al magazine WWD Women’s Wear Daily, in cui esprimeva l’assurdità dello stato attuale delle cose, “con la sovrapproduzione di capi e un disallineamento criminale tra il tempo e la stagione commerciale”. Il desiderio forte di un rallentamento, di privilegiare il “lusso del tempo”, di non essere più schiavi dei cicli pazzi della fast fashion cui il segmento del lusso si è adeguato imitandone i metodi operativi rappresentano per Armani “l’unica via d’uscita” per ridare valore al lavoro dei designer.

Alla lettera di Armani, un sollecito al risveglio delle coscienze di tutto il settore, è seguita, il 12 maggio scorso, un’altra lettera, o meglio un vero e proprio manifesto online, Open Letter to the Fashion Industry, firmato da un gruppo di designer e di retailer del settore luxury capeggiato da Dries Van Noten e a cui hanno aderito, tra gli altri, Erdem Moralioglu, Thom Browne e Tory Burch insieme a retailer come Nordstrom e Selfridges. 

In cosa consiste il manifesto? Prima di tutto si pone l’obiettivo di adeguare la stagionalità dell’abbigliamento femminile e maschile a partire dall’autunno/inverno 2020, creando un flusso più equilibrato e contemporaneamente dando più tempo per fruire dei prodotti. Focus poi sulla sostenibilità lungo tutta la catena di approvvigionamento, con prodotti meno inutili, minori sprechi di tessuti e di inventario, meno viaggi. E poi più utilizzo del mezzo digitale rivedendo e adattando le sfilate di moda. Il manifesto termina con l’auspicio che “lavorando insieme, questi passi consentano al nostro settore di diventare più responsabile riguardo all’impatto sui nostri clienti, sul pianeta e sulla comunità della moda, riportando la magia e la creatività che hanno reso la moda una parte così importante del nostro mondo”.

La lettera aperta all’industria della moda è il risultato di una serie di conversazioni avvenuta durante la pandemia tra ‘attori’ che di quell’industria fanno parte con ruoli di spicco; a proposito della sua iniziativa, Dries Van Noten ha dichiarato a Vogue che un passo indietro era necessario, interrogandosi contemporaneamente su quanto avesse senso continuare in quel modo.

E l’ultima presa di posizione post-pandemia è venuta da Alessandro Michele di Gucci che, incontrando ieri la stampa in videoconferenza, ha annunciato di voler eliminare tre appuntamenti perché “fare 5 show non è più accettabile”. Anche per Michele è arrivato il momento di rallentare dando “ossigeno anche ai piccoli, perché il sistema permette di correre solo ai grandi”.

Il vento del cambiamento soffia forte sul post-pandemia. Avanti così.

 

Fashion renting, una delle soluzioni ideali post Coronavirus

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Da ieri si è avviata la seconda parte della cosiddetta fase 2, sancita da un nuovo e fondamentale passaggio ovvero la riapertura di bar, ristoranti, parrucchieri, centri estetici e negozi. Una boccata d’aria per tante attività rimaste ferme per più di due mesi e certamente per molti ricominciare non è stato facile, tutt’altro.

Anche il comparto moda con le tante attività che hanno subito un arresto così prolungato è in forte sofferenza, tanto che si studiano soluzioni che permettano, non solo di far fronte alla crisi post emergenziale, ma anche di andare incontro alle molteplici sfide legate alla sostenibilità.

Secondo una ricerca elaborata da McKinsey & Company, per esempio, a livello globale le entrate del settore moda registreranno una contrazione del 27-30% rispetto al 2019 e due sono e saranno le preoccupazioni principali degli addetti: da un lato come disinfettare capi e camerini dopo ogni prova, dall’altra come comportarsi con le grandi quantità di merci accumulate nei magazzini in questo periodo.

La possibile risposta a questi interrogativi è il fashion renting, un trend nato oltreoceano, ma che da qualche tempo a questa parte è sempre più diffuso anche in Italia. Grazie al noleggio di abiti e accessori, infatti, è possibile ricevere capi sicuri e disinfettati direttamente a casa, evitando le code davanti ai negozi, che si vedranno costretti a contingentare l’afflusso dei clienti per tutelarne la salute. 

Del fashion renting avevamo già parlato agli albori di eco-à-porter (e ne vado fiera), intervistando Sara Francesca Lisot di VIC – Very Important Choice, piattaforma di sharing di abiti e accessori sostenibili (e ora anche di vendita).

VIC – Very Important Choice – courtesy VIC

Un’altra start up di fashion renting è DressYouCan, la cui fondatrice, Caterina Maestro dice: “In questo momento il fashion renting permette di soddisfare il proprio bisogno di indossare nuovi abiti in totale sicurezza. Dopo lunghe settimane trascorse in casa, tutte abbiamo voglia di togliere la tuta e optare per un bel vestito in grado di farci stare meglio e aiutarci a tornare alla normalità. Per tante, però, l’idea di entrare in un negozio e provarsi abiti in camerino può essere poco allettante, ecco perché scegliere un capo online e riceverlo a casa, con la garanzia che sia stato sottoposto a lavaggi specializzati, rappresenta un’ottima soluzione. Inoltre, il noleggio può essere visto come un modo per invertire la rotta: la moda si trova ad affrontare una crisi senza precedenti e, come evidenziato anche da grandi stilisti, questa situazione deve essere colta come un’opportunità per rendere il settore più sostenibile, rimediando a un decennio nel quale il fast fashion ha regnato sovrano. Il fashion renting può rivelarsi un’ancora di salvezza anche per i brand e contribuire a un futuro più verde, fatto di capi in grado di durare nel tempo e di guardaroba infiniti e condivisi.”

A certificare la sicurezza del fashion renting è il fatto che ogni capo è inviato a tintorie specializzate prima di ogni spedizione, garantendone così la non contaminazione da germi, virus e batteri. Ma non solo per i clienti, il fashion renting rappresenta una valida alternativa anche per i brand, che potranno vendere i capi della collezione estiva 2020 ai fashion renter, un modo per non cedere a politiche di sconto eccessive o, addirittura, alla distruzione di interi stock. Gran parte di questi abiti, infatti, è rimasta nei magazzini senza poter arrivare nei negozi in Italia e in gran parte del mondo a causa del lockdown ed è così che oggi i brand si trovano a fare i conti con enormi quantità di capi invenduti.

Il pericolo, secondo il report ‘The Business of Fashion, Coronavirus update’, è quello di abbandonarsi a una corsa al ribasso dei prezzi, una logica particolarmente pericolosa per il segmento del lusso poiché si scontra con la necessità di preservare la propria immagine. La scelta di optare per il noleggio può permettere ai brand di mantenere invariato il valore dei capi e di farli arrivare comunque ad un ampio mercato. Infine, scegliere il noleggio significa fare una scelta consapevole, contribuendo a salvare un Pianeta messo a dura prova dallo spreco di materiale tessile e dall’inquinamento prodotto da questa industria.

Riassumendo, quindi, ecco i 5 motivi per i quali il fashion renting può essere una delle soluzioni post Coronavirus:

  • Il lavaggio in tintorie specializzate certifica la sicurezza dei capi noleggiati
  • Libera dalla preoccupazione di lavare e disinfettare i vestiti a casa
  • Consente di ridurre le spese, garantendo prezzi contenuti
  • Contribuisce a far sì che il futuro della moda sia più green
  • Permette ai brand, tanto a quelli affermati quando a quelli emergenti, di dare nuova vita ai capi invenduti della collezione primavera/estate 2020

Un webinar intensivo per i nuovi finalisti di ISKO-ISKOOL

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Lockdown finito, siamo ufficialmente entrati nella cosiddetta fase 2, precaria e difficilissima ma da qualche parte bisogna pur ricominciare. Molto sta a noi, alla nostra responsabilità individuale, perché negli ospedali si continua a morire e medici e infermieri e gli operatori sanitari tutti stanno lavorando ancora duro e io, per quanto mi riguarda, ho sempre davanti agli occhi quel corteo funebre nella notte di Bergamo … ed era solo poco più di un mese fa.

Il mio desiderio sarebbe quello di agire continuando a portare rispetto ai nostri morti, ai nostri malati, a chi li sta curando e a tutte le persone che hanno perso qualcuno in questa terribile pandemia.

Detto ciò, mi premeva davvero condividerlo con voi, riprendo una news che avevo dato a fine gennaio, poco prima che scoppiasse tutto questo caos, cioè il concorso di ISKO-ISKOOL, che quest’anno, causa appunto Coronavirus, si è svolto online, seminario compreso.

Il tradizionale evento di due giorni, quello che ho frequentato anch’io presso la Creative Room di Castelfranco Veneto, si è trasformato in un webinar con studenti, giovani professionisti e tutor, tutti collegati tramite piattaforma digitale TalentLMS.

Tramite il webinar, i venti finalisti, selezionati tra più di 150 domande, hanno sperimentato un nuovo format, sempre con il supporto del team ISKO e di professionisti del settore, avvicinandosi al denim da tutti i punti di vista e toccando tutti gli aspetti della catena di approvvigionamento.

Per questa edizione del concorso, il tema attorno cui i finalisti dovranno presentare una capsule collection è ‘North, East, South, West – connected by one planet’ (Nord, Est, Sud, Ovest – collegati da un pianeta), argomento molto attuale in cui l’esplorazione del mondo, sia a livello locale che globale, va di pari passo con l’attenzione al ciclo di vita del prodotto.

I designer lavoreranno sull’idea di cittadinanza, scavando nelle proprie radici e avvicinandosi contemporaneamente a culture diverse per definire e rintracciare la geografia del mondo, il tutto collegato al concetto di responsabilità: “Non importa dove siamo nati o dove viviamo, una cosa resta la stessa: condividiamo tutti questo pianeta. Essere un designer oggi non significa solo creare cose belle, significa anche essere consapevoli del processo nel suo insieme, dagli schizzi alla produzione al marketing, assumendosi la responsabilità del ciclo di vita del prodotto. Ti chiediamo di esplorare il mondo che ti circonda sia a livello locale che globale”.

Argomento ancora più attuale alla luce degli ultimi eventi.


Anche la moda unita contro il Coronavirus

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Mi rendo sempre più conto che l’emergenza legata al Coronavirus e tutte le situazioni a essa correlate sono entrate così prepotentemente nella nostra quotidianità, stravolgendola, che non è proprio possibile, anche qui nel blog, scrivere senza tenerne conto. Sì, distrarvi parlando di marchi, realtà, cose belle che ancora ci sono là fuori, è giusto e sicuramente aiuta ma sento che comunque non posso prescindere da tutto ciò che sta accadendo, credo che nessuno di noi lo possa più fare.

E poi un altro mio pensiero, in questi giorni in cui si ha tanto tempo anche per riflettere, è che ‘sostenibilità’ è un concetto davvero molto ampio, che si presta a tante interpretazioni e, almeno per quanto mi riguarda, ci rientrano in pieno termini come ‘gentilezza’, ‘altruismo’, ‘coerenza’, un senso di ‘fare bene e fare del bene’ che va di pari passo con l’essere umani, con l’umanità nella sua accezione compassionevole. In fondo, scegliere di essere sostenibili e responsabili non significa forse amare il Pianeta e i suoi esseri viventi?

Ecco allora oggi voglio parlare dell’impegno che anche il settore moda, e qui ne parlo in modo generale, proprio come industria, senza fare distinguo tra eco e no, si sta assumendo per venire incontro all’emergenza sanitaria dovuta al Coronavirus. Tante sono le imprese tessili e in generale del settore che si sono riconvertite o si stanno riconvertendo per produrre mascherine che, ormai si sa, servono in tutto il Paese.

In questo week-end appena trascorso, su tutto il territorio nazionale sono state prodotte 180mila mascherine in Tessuto Non Tessuto da distribuire a medici, infermieri e operatori della Sanità, di cui 120mila in Toscana. Tra le aziende coinvolte anche Gucci, Ferragamo, Prada, Fendi, Celine, Valentino e Scervino, che le realizzano in proprio o attraverso i loro fornitori.

Da oggi la produzione giornaliera, sempre in Toscana, salirà a 129mila pezzi, per poi crescere ancora: si prevedono 149mila martedì e 187mila mercoledì.

La Regione Toscana ha ideato un tipo di mascherina triplo strato in Tessuto Non Tessuto con elastico, testata dai laboratori di analisi dell’Università di Firenze e compatibile con i requisiti di sicurezza di quelle chirurgiche ma a marchio Ce.

Il Presidente della Toscana Enrico Rossi ha poi dichiarato che per aumentare maggiormente il livello di sicurezza, è stata introdotta una sperimentazione per il trattamento delle mascherine con una sostanza disinfettante che aumenta il grado di protezione e filtraggio, nonché una sterilizzazione con le radio terapie.

Stessa cosa nella Regione Marche (dove anch’io risiedo); tante ditte di confezioni per alta sartoria e grandi marchi della moda stanno producendo a pieno regime mascherine protettive, come ‘Confezioni Europa’ di Castelfidardo, che va a un ritmo di 2000 al giorno.

Ecco, è anche a questo che mi riferisco quando parlo di sostenibilità. ‘Sostenere’, essere d’appoggio, d’aiuto. E d’altronde è solo così che si può vincere la guerra durissima che sta mettendo a dura prova il nostro Paese e il mondo intero.

PS: ultima cosa ma non meno importante un pensiero particolare a tutte le operaie, gli operai e gli imprenditori che continuano a lavorare per noi con tutti i rischi connessi 🙏🏻

AndesOrganic, lo showroom diventa ‘itinerante’

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Vale sempre la pena trovare nuovi modi per diffondere il ‘verbo’ della moda sostenibile, anche uno showroom ‘itinerante’ come quello organizzato da AndesOrganic, agenzia di rappresentanza e distribuzione specializzata nella vendita B2B di collezioni prodotte con fibre naturali certificate, quali cotone, canapa, seta e lana bio.

La formula dello showroom itinerante nasce dall’esigenza di promuovere e raccontare in maniera approfondita le virtù e la qualità dei prodotti realizzati con fibre ecologiche, in modo da fornire ai commercianti informazioni dettagliate e necessarie alla vendita di prodotti certificati, creati nel rispetto della natura e dell’uomo.

Gli appuntamenti dello showroom itinerante per il mese di febbraio sono a Bologna (una giornata è stata ieri e una è in corso oggi al Best Western Tower Hotel fino alle 16) e a Milano domenica 23 dalle 10,00 alle 19,00 e lunedì 24 dalle 9.30 alle 14.00 al Garden Dance Studio.

In queste sedi verranno presentate le nuove collezioni 2020/21 di intimo, abbigliamento e calzetteria uomo, donna, bambino e baby, oltre a una serie di accessori tessili per la casa, di rinomati marchi europei del settore moda etica e sostenibile tra cui: AlgoNatural, con le sue t-shirt in cotone bio, Nomads, brand di abbigliamento fair-trade, Tranquillo, prêt-à-porter ecologico donna, Komodo, boutique eco-fashion, Bleed organic, sportswear vegano, Monkeegenes, jeans etici e MaHemp, abbigliamento in canapa.

Oltre a rappresentare e distribuire prodotti in fibre naturali certificate, e a offrire la possibilità di acquistare direttamente le collezioni dei brand sopra citati, AndesOrganic offre consulenze mirate per avviare una nuova attività o per trasformare un’attività esistente, fornendo tutte le informazioni necessarie per la vendita di abbigliamento e accessori etici.

Per chi nel settore fosse interessato, una buona opportunità. La moda sostenibile ne ha sempre bisogno, di opportunità.

Le immagini in copertina sono, da sinistra a destra, dei marchi: Tranquillo, Komodo e Nomads.

Il nuovo progetto di Rifò: ‘ripensa il tuo jeans’

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Qualche giorno fa, curiosando su Instagram, mi è saltato all’occhio un post di Rifò, il marchio di abbigliamento e accessori realizzati con tessuti rigenerati, di cui abbiamo parlato qualche mese fa intervistando il suo fondatore Niccolò Cipriani.

Il post stuzzicava la curiosità; l’immagine era questa:

courtesy Rifò

e il testo diceva: “tutti parlano di moda sostenibile ma quanti davvero la mettono in pratica?
Il 5 febbraio lanceremo un progetto rifoluzionario, il Progetto X e abbiamo deciso di tenerlo segreto per farvi una bella sorpresa! Sarà il primo progetto di economia circolare collaborativa in Italia, dove tutti potranno contribuire a rendere l’industria della moda più sostenibile”.

Il 5 febbraio è arrivato e il misterioso Progetto X è stato svelato ieri presso il negozio Naturasì di Prato, che Rifò è una realtà della zona. Di cosa si tratta? Si chiama ‘Re-Think your jeans‘ ed è un progetto pilota di economia circolare collaborativa che permetterà di inserire i jeans che non usiamo più nel processo di rigenerazione, contribuendo a mettere in pratica i principi della moda etica e sostenibile. Sono compatibili con la raccolta tutti i capi da 95 a 100% cotone denim, con una tolleranza fino al 5% di altre fibre ed elastane.

Ognuno può partecipare portando il proprio o i propri jeans in uno dei punti raccolta che per ora si trovano nei negozi Naturasì di Prato, Pistoia, Lucca e Parma, quindi, si tratta di un’iniziativa che, essendo alla sua prima fase, resta circoscritta ad alcune aree ma che potrà essere replicata anche in altre città italiane se avrà successo.

I jeans vanno selezionati facendo attenzione alla composizione, poi portati negli appositi contenitori dei punti di raccolta NaturaSì che aderiscono all’iniziativa in cambio di un buono sconto di 10€ da spendere nello shop online di Rifò. Portando più di 3 paia di jeans si riceverà in omaggio una shopper in cotone denim rigenerato.

E dopo la raccolta, cosa avviene? I vecchi jeans vengono selezionati da Recooper, una rete di cooperative sociali che si occupa della selezione di abiti usati, per essere inseriti nel processo di rigenerazione che prevede la loro sfilacciatura e la trasformazione in nuova fibra. Dopodiché l’azienda pratese Pinori Filati li tradurrà in nuovo filato con cui saranno prodotti capi sostenibili, come quelli già in vendita sullo store online di Rifò.

Ecco quindi svelato il Progetto X, una bella iniziativa che unisce più realtà, diverse ma con un unico scopo, quello di operare per una moda più sostenibile, anti-spreco e che valorizza le realtà di un territorio. L’auspicio è che il progetto funzioni e che si possa estendere a tutta Italia, anzi, ognuno di noi, può coinvolgere altre persone e parlare del progetto ai negozi Naturasì della propria zona. Allora sì, che si potrà parlare di economia circolare collaborativa!

Vittoria! Allevamento di visoni chiude l'attività

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Eh sì, quando ci sono certe notizie bisogna darle e col punto esclamativo! L’allevamento di visoni a Cella di Noceto, Parma, ha appena chiuso i battenti, dopo che già nel 2013 e nel 2015 l’organizzazione Essere Animali aveva documentato, proprio in questo allevamento, le misere condizioni di vita dei visoni condannati a diventare pellicce.

La chiusura dell’allevamento è stata confermata dall’AUSL di Parma, che ha trasmesso a Essere Animali gli atti che indicano la cessazione dell’attività della Mavical S.r.l., la Società Agricola che gestiva l’allevamento per conto dei proprietari, una ditta di Bolzano di impianti fotovoltaici.

L’allevamento era stato aperto nel 2012 e la ditta era stata fin da subito sanzionata per aver introdotto gli animali senza aver notificato l’apertura dell’attività e, anche se all’epoca il consiglio comunale locale aveva tentato di introdurre un Regolamento per la tutela e il benessere degli animali in modo da vietare l’insediamento di allevamenti per pellicce, l’attività era andata avanti.

Non è la prima azienda che alleva visoni a chiudere i battenti. Negli ultimi tre anni, sempre Essere Animali ha segnalato la chiusura di 8 allevamenti, tra cui uno dei più grandi d’Italia, quello di Lusiana Conco, in provincia di Vicenza, le cui gabbie contenevano circa 30.000 visoni.

In alcuni casi l’attività è cessata in seguito a denunce presentate per violazioni di legge, ad esempio in quello di Luisiana Conco erano presenti strutture in amianto, ma la crisi del settore ‘pellicce’ è globale e sempre più legata alla presa di coscienza dei consumatori riguardo alla sofferenza degli animali e anche alle scelte di brand e designer che rinunciano all’uso della pelliccia naturale nelle loro collezioni.

Passo avanti importante, oltre alle graduali chiusure degli allevamenti di visoni in Italia e nel resto del mondo, è stato anche l’atto approvato in California pochi mesi fa, che vieta dal 2023 la fabbricazione, la vendita e l’acquisto di capi in pelliccia, che siano di abbigliamento o accessori, comprese le scarpe.

E così, in Italia, restano attivi poco più di dieci allevamenti che, secondo la stima di Essere Animali, uccidono ogni anno circa 100.000 visoni; da tempo con la campagna Visoni Liberi Essere Animali chiede l’introduzione di un divieto nazionale di allevamento di animali da pelliccia. E’ possibile partecipare all’appello firmando la petizione. Io l’ho fatto. E voi?

Foto copertina credits Essere Animali

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