C&A, il cuore della grande distribuzione

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C&A logo

A chi è andato in Germania, Austria o nei Paesi Bassi, sarà forse capitato di entrare o almeno di imbattersi, nelle vie centrali dello shopping delle grandi città, nella catena di abbigliamento olandese C&A, da Clemens e August Brenninkmeijer, i due fratelli che la fondarono nel lontano 1841. Io l’ho conosciuta a Vienna e fino a qualche tempo fa l’ho sempre considerata, né più né meno, come altre catene della grande distribuzione che si trovano in quantità, soprattutto nei Paesi nordeuropei, offerta vasta e variegata e piani su piani di scale mobili, dove alla fine non sai più cosa cerchi realmente, magari ti ci perdi e ne esci esausta.

C&A Mannheim – courtesy of 4028mdk09


Invece C&A mi ha riservato delle sorprese positive fatte facendo ricerche per il blog, soprattutto per articoli che riguardavano concorsi e premi per il design e le innovazioni sostenibili o per la stessa Fashion Revolution di cui, a breve, si festeggia la settimana.

Innanzitutto essere sul mercato da più di 170 anni non è male, nella storia del brand leggo che i legami con l’industria tessile risalgono almeno al XVII secolo, quindi non solo radici antiche ma anche un aspetto pionieristico che per un’attività commerciale significa esperienza e capacità di affrontare cambiamenti epocali come sono stati quelli che hanno caratterizzato questi ultimi due secoli. Ma ciò che più importa è che il concetto di sostenibilità è parte integrante della visione di C&A, concetto che viene portato avanti dalla C&A Foundation, fondata nel 2011 dopo l’Instituto C&A nel 1991 in Brasile e la Fundación C&A Mexico nel 1999. La fondazione opera a stretto contatto con l’azienda su più fronti che vanno dall’utilizzo di materiali e processi più sostenibili rispetto alle tecniche di produzione convenzionali al sostegno a start-up innovative, come Fashion for Good, dalla tutela dei lavoratori a quella degli animali (angora e pelliccia bandite già da anni) al supporto al lavoro femminile con campagne ad hoc come ‘Inspiring Women’, che riconosce alle donne di essere la forza che guida l’industria dell’abbigliamento e il brand stesso: l’80% delle dipendenti di C&A sono infatti donne, come anche quelle che lavorano nella catena di approvvigionamento.

C&A organic cotton t-shirts courtesy of C&A

In cima alla lista dei materiali sostenibili più utilizzati da C&A c’è il cotone organico; l’anno scorso Textile Exchange, una delle più importanti organizzazioni non-profit che promuovono a livello internazionale lo sviluppo responsabile e sostenibile nel settore tessile, ha nominato per la quinta volta C&A il più grande compratore mondiale di cotone organico certificato e oggi oltre il 70% del cotone che l’azienda utilizza è certificato come cotone organico o coltivato come Better Cotton. Aderendo a ‘The Transparency Pledge‘, il documento che garantisce la totale trasparenza dell’intera filiera produttiva della merce, C&A ha pubblicato la lista dei propri fornitori mondiali di primo e secondo livello, promuovendo, insieme alla cultura della trasparenza, anche i valori di integrità e responsabilità nei confronti dei lavoratori e dei consumatori.

Con la collezione #Wearthechange, lanciata nel febbraio scorso, C&A offre capi più sostenibili come le t-shirt Cradle to Cradle Certified™ di livello Gold realizzate al 100% in cotone bio e prodotte con energie rinnovabili, i jeans fatti con cotone riciclato e le giacche di poliestere anch’esso riciclato.

#Wearthechange C&A courtesy of C&A


La C&A Foundation lavora poi regolarmente con associazioni come Human Rights Watch e altre organizzazioni internazionali di diritti dei lavoratori per eliminare le cattive prassi come i carichi eccessivi di lavoro, il subappalto non dichiarato e le restrizioni alla libertà di associazione.

Inoltre la fondazione spicca anche tra i sostenitori della Fashion Revolution, anche se il movimento stesso tiene a precisare che il fatto che la C&A Foundation sia uno dei loro ‘sponsor’ ufficiali, il marchio omonimo non gode ovviamente di favoritismi ma si tratta di due ‘entità ben distinte. Ci mancherebbe, altrimenti che rivoluzione sarebbe?!

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