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‘Alare di Luana Cotena’, libertà de/dalle forme

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Noi di eco-à-porter l’abbiamo sempre sostenuto, che un altro aspetto fondamentale della moda etica è l’inclusione, non solo sociale ma anche corporea ovvero quella libertà da forme prestabilite, di abiti adatti a tutte le taglie, a più corpi e conformazioni.

La designer Luana Cotena

A questo proposito, ci è sembrato perfettamente in linea il progetto della designer Luana Cotena, che con la sua startup ‘Alare‘ (dalla combinazione di ‘Alma’ – Anima – e ‘Disfare’, legato al concetto di ‘Anime disfatte che ambiscono alla libertà’), si propone come agenzia di comunicazione e laboratorio creativo che, attraverso l’arte manifatturiera, le nuove tecnologie e la comunicazione di valore, si prefigge di diventare un manifesto sociale e ambientale attraverso abiti/messaggio nati da storie personali.

Sono le vite degli altri, quindi, che aiutano a modellare gli abiti, ispirandoli e rendendoli un simbolo con cui si sottolinea l’importanza dell’unione, della fluidità, dell’inclusione, delle pari opportunità, del riciclo, dell’integrazione sociale, della rigenerazione dei capi. Il tutto discostandosi dal concetto di etichette e taglie al fine di valorizzare l’Essere, l’Essenza e l’Unicità corporea e spirituale.

Una moda umana, insomma, che rispecchia i corpi reali valorizzandoli.

Il primo abito/messaggio si chiama ‘Alare’ e si propone come una voce che affronta la tematica sociale del body shaming e non solo: tutta la sua struttura è nata seguendo lo studio della muscolatura umana e per contrastare i costrutti sociali oppressivi e non inclusivi in cui la bellezza viene distorta e industrializzata.

Andare oltre, quindi, valicare i confini della propria comfort zone, affrontare le proprie paure ed esplorare nuove realtà, per trovare comprensione e tolleranza.

Non è un caso, infatti, che il progetto di Luana Cotena abbia vinto il premio ‘Pari Opportunità’ della Regione Campania, in quanto si impegna a creare un impatto sociale positivo, promuovendo lo sviluppo della comunità, la crescita personale e professionale dei clienti e supporter.

” ‘Alare’, dice Luana, è di tutt* noi e celebra i valori di libertà, corpo e anima proponendosi non solo come brand di moda ma come una voce e una visione in cui è possibile riconoscersi, valorizzarsi e non sentirsi sol*”.

Tutte le immagini sono courtesy @Alare

+mino, eco-giacche contemporanee

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A ogni stagione i suoi capi, anche se è da un po’ che ‘le stagioni non sono più quelle di una volta’. Ma prima o poi il freddo arriva, e intenso anche, come in questi giorni e per chi è alla ricerca di una soluzione un po’ più sostenibile o, piuttosto, ‘per tutti gli audaci frequentatori di sogni’, ci sono Sergio, Lorenzo, Giacomo, Carlo, le cui iniziali dei rispettivi nomi vanno a comporre la società Selogica.

È da questa società che è nato +mino, marchio di capospalla sostenibili, creato da Michele Tarolli e Stefano Bonaventura, che di Sergio, Lorenzo, Giacomo e Carlo sono i relativi papà. Capite perché Selogica, e il progetto ‘+mino’ a esso legato, hanno per il duo creativo un enorme valore simbolico, rappresentando, non solo i figli che ‘sono pezzi di cuore’ ma, in senso più ampio, gli adulti di domani, che dovranno inevitabilmente confrontarsi per risolvere i torti che le generazioni precedenti hanno inflitto al pianeta e al suo ecosistema.

Michele Tarolli e Stefano Bonaventura, amici e soci

Con tali premesse Michele e Stefano, amici da molti anni, hanno fondato Selogica nel 2023, quest’anno quindi, e se andate a vedere il bel video di presentazione del progetto sul loro sito, vi saranno ulteriormente chiare motivazioni, princìpi e scopi. Io, comunque, me li sono fatti riassumere direttamente da loro:

  • Michele: “Si dice che se scegli un lavoro che ami non lavorerai neanche un giorno della tua vita, e per me +mino nasce come risposta al mio desiderio di costruire bellezza, di partecipare attivamente alla costruzione di un futuro più etico e pulito. Sono molto orgoglioso di proporre alternative sostenibili e cruelty-free in un settore inquinante ed eticamente spregiudicato, dominato dal profitto e che impone obsolescenza dei prodotti per generare acquisti continui e ripetuti. +mino ha intrapreso tutt’altra strada, per questo amo il mio lavoro e mi sento un privilegiato, anche perché mi consente di promuovere uno stile di vita in armonia con l’ecosistema e con gli animali, la cui tutela è sempre stata una delle mie priorità” (NdA Michele infatti è ingegnere ambientale).
  • Stefano: “Sono nato in una famiglia davvero sensibile alle tematiche ambientali e animaliste, un imprinting che ha condizionato moltissimo il mio percorso professionale. Dal 2008 mi dedico esclusivamente alla ricerca e progettazione di capi di abbigliamento sostenibili, con l’impulso, o meglio, l’urgenza, di contribuire a uno sviluppo a misura d’uomo per il bene collettivo e che sappia gestire al meglio le risorse disponibili sul territorio. +mino per me è il contenitore che raccoglie e valorizza al massimo le mie esperienze precedenti, e il mio sogno è costruire una realtà economicamente sostenibile che diventi emblema di eco-compatibilità, giustizia sociale, etica ed efficienza produttiva. Dal prossimo anno +mino sarà a ‘impatto zero’, da quelli successivi saremo l’unica azienda del settore ad avere impatto positivo: le nostre produzioni lasceranno l’ambiente, grazie a massicce compensazioni di CO2, migliore di come l’hanno trovato” (NdA Nel 2018 Stefano ha contribuito alla fondazione di una Società Agricola a Bolzano, con l’obiettivo di riaffermare sul territorio nazionale la canapa tessile, in alternativa ai materiali di sintesi, in un progetto premiato e supportato dalla Provincia Autonoma).
+mino pensa anche alle mamme, con modelli dotati di maxi-tasca zippata centrale

Insomma Michele e Stefano ci stanno provando e, in realtà, Stefano ci aveva già provato con Quagga, il marchio di outerwear sostenibile di cui anche noi avevamo parlato (uno dei nostri primi pezzi, agli albori del blog!). Così ecco che l’esperienza ha aiutato il duo ad approcciarsi a +piumino con: uso di fibre riciclate a ridotto impatto ambientale, totalmente cruelty-free, produzione e confezione made in Italy a km quasi zero, collaborazione a progetti di sviluppo e attenzione al territorio.

Proprio in questo senso ho chiesto a entrambi di approfondire l’aspetto sociale della produzione ma anche, successivamente, la questione ‘fibre riciclate’, in particolare quella del poliestere riciclato, che resta una fibra sintetica che rilascia micro-plastiche e che non è facilmente riciclabile :

  • “Riguardo al primo aspetto, +mino è un marchio italiano che produce e produrrà sempre sul territorio nazionale, lo dichiariamo nel nostro codice etico; valorizzare le eccellenze produttive italiane ci rassicura circa la qualità e il controllo agile dei capi confezionati, inoltre ci garantisce la salubrità dei luoghi di lavoro che devono aderire ai protocolli europei in termini di giustizia sociale, tutela sindacale, assenza di discriminazioni per provenienza, sesso, religione. La produzione dei nostri capi avviene in provincia di Novara, stiamo anche valutando altri laboratori di confezione in Trentino, Lombardia, Toscana e Puglia per differenziare le linee produttive, prediligendo realtà artigianali a conduzione famigliare ove sia più facile gestire relazioni professionali in modo informale, con una maggiore partecipazione delle maestranze. Sartorie e altre realtà cooperative sono senz’altro coinvolte negli studi preliminari dei modelli, soprattutto nella parte post-produzione per la parte di recupero degli scarti tessili che, opportunamente lavorati, danno vita ad accessori e altri manufatti in pieno accordo coi principi di riuso e riutilizzo”.
  • “Il poliestere riciclato al momento appare come l’unica scelta sostenibile per la produzione di capi ‘complessi’ come giacche e giubbotti. In Italia disponiamo di enormi quantità di plastica post-consumo conferite in discarica (ci vogliono fino a otto secoli per degradare una semplice bottiglia PET) ma non disponiamo di fibre vegetali di origine nazionale, dunque la nostra preferenza si è rivolta a ciò che è presente sul territorio, contribuendo a ridurre i volumi di materiali ancora preziosi che altrimenti andrebbero perduti. Cotone, lino, canapa e bambù sarebbero alternative più sostenibili per la biodegradabilità dei lavorati, purtroppo nel nostro Paese si è persa da decenni la filiera di queste fibre, i supporti tessili vegetali hanno provenienza extra UE e per quanto possano essere biologici alla fonte e decomponibili a fine vita, sono meno performanti a livello ambientale a causa delle emissioni di CO2 generate dal trasporto dei volumi da una parte all’altra del globo. Consapevoli di ciò stiamo dedicando molte risorse alla realizzazione di un progetto pilota molto virtuoso, volto alla re-introduzione delle fibre tessili sul territorio nazionale, con l’obiettivo di integrare l’attuale collezione in poliestere riciclato e Econyl (nylon rigenerato partendo dalle reti da pesca dismesse) ad altre collezioni in fibre vegetali a filiera corta, totalmente Made in Italy”.
Il messaggio di benvenuto all’interno della giacca

Il discorso fila, non c’è che dire, l’impegno e la volontà ci sono e intanto c’è la produzione attuale, curata nei minimi dettagli, incluso il saluto ricamato all’interno dei capi, un augurio per la giornata da affrontare: ‘Welcome back, insieme possiamo fare grandi cose’.

Tutte le immagini sono courtesy +mino Ecolab

Cosetex, la seta che non ti aspetti. Una storia.

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Settembre, per molti mese di nuovi inizi, in un certo senso anche per noi che ultimamente abbiamo rallentato un po’.

E ricominciamo davvero parlandovi di seta, un termine che al solo pronunciarlo evoca, oltre a esotismi vari, qualità sopraffine come lucentezza e leggerezza, una fibra preziosa che esiste e resiste da millenni, da sempre esclusiva e che anche l’Italia ha prodotto, con una tradizione che si è tramandata per secoli (un solo dato: nel 1924 si contavano 57.000 tonnellate di produzione italiana di bozzoli) fino quasi a scomparire, purtroppo, dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Nella seconda metà dell’800, in una zona della Brianza compresa tra le attuali province di Como, Lecco, Bergamo e Monza-Brianza, ricca di coltivazioni di gelso e di allevamenti di bachi da seta, il viticoltore e commerciante di vino Silvio Mandelli decide di affiancare, alla propria attività, l’allevamento di bozzoli. Visti i buoni risultati e i contatti con alcune filande della zona, Mandelli inizia anche a ritirare, dalle stesse filande, quell’insieme di sottoprodotti da produzione che prendono il nome di cascami di seta, per poi rivenderli sul mercato milanese di via Moscova.

L’attività, non senza fatiche, si è mantenuta fino a oggi, grazie a un passaggio generazionale e di conoscenze sempre più approfondite; l’azienda ha preso il nome di Cosetex, ha sede a Medolago nel bergamasco e della specializzazione sulla fibra di seta e sul comparto dei cascami di seta naturale ha fatto la sua mission.

Silvio Mandelli, CEO Cosetex

Parlo con Silvio Mandelli, CEO e nipote del fondatore, con il fratello alla terza generazione di un modo/mondo diverso di pensare la seta, spingendosi verso processi, lavorazioni e ideazioni di ‘riciclo’ o di ‘rivalorizzazione’ (#ReValue, come dalla foto di copertina), come preferisce denominarla Mandelli.

La fibra di seta su cui scommette da sempre Cosetex è quella discontinua, ricavata appunto dai cascami di seta di filanda o di lavorazioni successive, ossia da tutte quelle fibre di seta vergine e/o sottoprodotti che non si prestano, per ragioni di tecnologia produttiva, a essere lavorate come la seta continua, che invece deriva direttamente dal bozzolo e che dà origine al filo continuo, avvolta in coni e matasse di filamenti paralleli.

“La seta nella visione Cosetex è una fibra da custodire e preservare, spiega Silvio, che, re-immessa all’interno della filiera tessile, risulta riutilizzabile al 100% in una svariata gamma di campi, anche alternativi al tessile, come l’accessoristica, il packaging, l’edilizia, le carte speciali, i pannelli fonoassorbenti, le strutture per l’arredamento. La componente proteica naturale della seta apre inoltre a interessanti scenari nel campo della cosmetica, del medicale e del bio medicale, delle nanotecnologie, del food, dei trattamenti per la sostituzione dei pfc (perfluorocarburi), nell’idrorepellenza, nell’innovazione high tech”.

L’uso innovativo della seta Cosetex

Potenzialità infinite di una fibra che per Silvio Mandelli “è e sarà sempre di più ‘materiale’, perché non più limitata al solo ruolo di fibra, anche se come tale non finirà di manifestare le proprie eccellenze e bellezza. La seta è secondo noi di Cosetex, in modo inequivocabile, il materiale del futuro e in quanto tale, il suo modello necessita di essere divulgato e spiegato. Esso è nella storia, è parte della nostra cultura, sta a noi darne voce e valorizzarla”.

Quindi l’azienda non ha solo interesse a far conoscere la propria attività e i prodotti ma anche ad aiutare il consumatore o il professionista del settore a capire cosa sia realmente la seta, cosa sia realmente sostenibile, realmente naturale, realmente riciclabile, realmente legato alla salute del corpo.

“La produzione della seta discontinua, continua Silvio, deriva da sottoprodotti di lavorazioni e, appunto, non è strettamente legata al filo continuo, all’integrità del bozzolo e quindi del lepidottero ucciso (il Bombyx Mory). Si sono pertanto sviluppate una serie di produzioni che utilizzano i bozzoli cosiddetti sfarfallati (dove la farfalla esce creando un buco nella parte alta del bozzolo), produzioni che partono da bozzoli utilizzati per la riproduzione (tagliati prima di giungere a maturazione per estrarre la larva falena viva), produzioni che utilizzano alcune tipologie di bozzoli selvatici, che per loro caratteristica non completano, volutamente, il bozzolo e non sono utilizzabili per il filo continuo”.

Bozzoli utilizzati da Cosetex

Parlavamo prima di una svariata gamma di applicazioni della seta studiate e ideate da Cosetex, tra cui spicca il progetto, brevettato, Thermoseta/T.Silk, che ha permesso di sviluppare un’innovativa imbottitura in 100% seta per abbigliamento, letto, accessoristica, dotata di eccezionali poteri di mantenimento di calore associati ad elevata traspirazione.

Silvio ci tiene a menzionarmi, nello specifico, T.Silk collection, “una serie di prodotti finiti per il sistema letto altamente innovativi proposti al mercato B2B e B2C tramite uno specifico e innovativo canale web di e-commerce. Setino è il nostro ‘piumone in seta che non ti aspetti’, Setino Topper il coprimaterasso imbottito, Leonardo il guanciale imbottito, Nuvola il set di lenzuola, la federa, la mascherina da notte e la fascia protettiva per i capelli”, tutto, naturalmente, 100% seta.

Guanciali e federe dalla TSilk Collection

È vero, quello della seta è un mondo complesso, e l’incontro con Silvio Mandelli e la sua storica azienda proiettata nel futuro, ce lo hanno dimostrato, come ci hanno dimostrato che il binomio seta/recupero o anche seta/rigenerazione, non solo sono possibili ma anche auspicabili.

La reale sostenibilità è un elemento che contraddistingue ogni fase di questo ‘sistema’, con un pieno utilizzo delle risorse e l’annullamento di ogni tipologia di scarto, a partire ad esempio dalla coltivazione del gelso, le cui foglie nutrono il baco ma che, nei tempi morti produttivi, può essere anche un albero da frutta (more) e le cui fertilizzazione e protezione sono altamente compatibili con un sistema biologico e rigenerativo. Un sistema che, grazie alla sua componente agricola, permette di fissare nel terreno e togliere dall’atmosfera rilevanti quantità di CO2 e gas serra 

La strada delle fibre sintetiche o delle fibre artificiali ‘travestite’ da naturali non è più possibile e giustificabile; percorrere una nuova ‘via della seta’ è la direzione giusta.

Tutte le immagini sono courtesy ©Cosetex

 

L’arte upcycled di Gilberto Calzolari

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Seguo Gilberto Calzolari da quando ha vinto, nel 2018, il Green Carpet Fashion Award (GCFA), quindi quasi dall’apertura di questo blog. Si era aggiudicato il premio con un abito upcycled fatto di una combinazione di materiali ‘poveri’ e ‘ricchi’ ma entrambi naturali: la fibra vegetale dei sacchi di iuta provenienti dalle piantagioni brasiliane di caffè e i cristalli Swarovski che non contengono piombo.

L’abito di Gilberto Calzolari vincitore del GCFA

Io quell’abito ce l’ho in mente ancora adesso, aveva una semplicità raffinata straordinaria e trovo che questa sia una delle caratteristiche della moda di Gilberto Calzolari, evidente anche nella sua ultima collezione ‘The Art of Upcycling’, di cui vi ho accennato qualche mese fa, in occasione della Cracovia Fashion Week, dove Calzolari era ospite.

Mi ero ripromessa di approfondire, perché la tecnica dell’upcycling e del riuso in generale sono, in questa collezione, applicate in modo geniale e il risultato sono outfit sorprendenti.

‘The Art of Upcycling’ è una rielaborazione degli abiti upcycled già realizzati dal designer, che conferma quanto questa pratica sia diventata il proprio marchio di fabbrica, una pratica che, oltre a essere sostenibile, è anche immaginifica, capace com’è di ‘giocare’ con i materiali più insoliti.

Ci sono oggetti e materiali nati per ambiti totalmente differenti dalla moda, cui Gilberto ricorre per creare il suo glamour colorato e giocoso ma pienamente dotato di senso, che fa riflettere su quanto si possa risparmiare in termini di materia vergine, usando ciò che già esiste, salvandolo dall’essere un rifiuto.

Prendiamo i materassini, sì, proprio quelli che si buttano a fine estate, soprattutto se bucati; immagino che molti di voi abbiano in mente il fenicottero gonfiabile, io stessa ci ho fatto diversi giri in piscina l’estate scorsa. Ecco, nella collezione è diventato l’abito ‘Flamingo’, lungo, asimmetrico, i cui dettagli coincidono con la struttura originale del gonfiabile.

Altri tipi di materassi, o meglio, il lino cupro organico proveniente dall’upcycling di tessuti utilizzati per rivestire e foderare i materassi, è stato usato per il completo rigato, giacca crop e pantalone palazzo portato con la borsa ricavata dallo zaino da paracadutista della Seconda Guerra Mondiale.

Lo stesso zaino da paracadutista è diventato anche una gonna tubino molto sensuale, rendendo il mood militare inedito e sensuale, mentre il top abbinato è in quella iuta con cui Calzolari ha realizzato l’abito vincitore del GCFA di cui sopra.

Che dire? Gli outfit upcycled sono tanti, praticamente tutti, e io andrei avanti all’infinito ma preferisco lasciarveli scoprire tutti sul sito del designer alla pagina dedicata.

Comunque, oltre ai materiali e agli oggetti già nominati, in ‘The Art of Upcycling’ ci sono anche: reti da imballaggio per arance e limoni ricamate con materiali di scarto, fogli di prova di stampa, i cosiddetti Atlanti, creati dagli stampatori per settare il colore delle macchine, airbag esplosi e cinture di sicurezza scartate, tende da doccia e ombrelli rotti.

E poi tanti tessuti sostenibili, dal poliestere certificato Seaqual (riciclato da plastica recuperata dal mare) al nylon EVO ricavato dai semi della pianta di ricino al sughero e al cotone biologico.

Insomma, questa collezione e in generale il lavoro tutto di Gilberto Calzolari dimostrano come sia possibile e fattibile una moda fatta quasi esclusivamente di ‘scarti’, scarti reperibili in ogni dove, basta l’inventiva e il saper guardare oltre.

E se, in teoria, al designer l’inventiva non dovrebbe mancare, e gli scarti neanche, cosa aspettano i tanti creativi della moda mainstream a seguire l’esempio, ad aprirsi con più coraggio alla sperimentazione?

La moda mare che non cerca consensi ma fa stare bene

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di Mariangela Bonesso

L’estate somiglia a un gigantesco manuale di istruzioni. Dai piedi a prova di sandalo ai consigli per
affrontare l’ansia da bikini, è una continua ‘to do list’, che rischia di togliere la semplice voglia di
stare bene con se stessi, alla ricerca forzata di consensi. Senza alcuna pretesa di elenco
esaustivo, vi raccontiamo 4 brand italiani di moda mare sostenibile che metteremmo volentieri in valigia
canticchiando entusiaste: “I feel good!.

Salmastra, marchio ideato da Carlotta Duranti, è un concentrato di buonumore e originalità. La collezione ‘Recycled’ attinge da magazzini, fine stock di grandi aziende e mercato locale, arrivando anche a creare un bikini da un copri poltrona trovato a saldo.

Se la lycra scarseggia, Carlotta rielabora tessuti impiegati per l’abbigliamento ordinario, utilizzandoli in tralice (sbieco), quando non sono bi-elastici o lavorando le stoffe a rovescio. Il risultato sono linee di costumi artigianali a numero limitato, confortevoli e personalizzabili secondo il proprio stile, come nel caso dei bikini
scompagnati.

Di Nimé, brand di intimo e beachwear fondato da Laura Marchesi, ci piace l’idea di fondo: Nimé è una parola inventata per comprendere ‘ogni me’, riferito a ogni donna libera di esprimere la propria personalità e il proprio corpo. Capi versatili in tessuti certificati o ricavati da dead stock, pensati per risultare comodi senza costrizioni inutili, come i ferretti.

Nella collezione ‘Universo’, i costumi sono realizzati in tessuto crinkle smacchinato in tubolare, quindi unito a
cilindro senza cuciture. La particolare goffratura lo rende elastico e soprattutto adattabile, in modo
naturale, alle diverse silhouette. ‘Un Tessuto. Una Taglia. Tutti i Corpi’ riassume l’essenza della collezione.

Ha un nome che non passa inosservato Le Chiappette, marchio di moda mare che coniuga lo stile italiano con la filosofia slow fashion. Per le creatrici, la designer Valentina Ferrara e l’artista Gaia Giugni, la sostenibilità non deriva solo dall’impiego di filati riciclati o fibre naturali ma anche dall’inclusività pensata come valorizzazione di ogni corpo e di ogni età.

Le Chiappette – Costumi per tutte le età

‘Anemoni’ e ‘Posidonie’ sono le linee della collezione 2023: un tributo al mare tra l’eleganza anni ’50, rivista in chiave green e una versione più essenziale, dai colori solidi e lucenti, impreziosita da frange in lurex
eco-sostenibile. Costumi che sembrano cuciti addosso, grazie anche a sgambature e scollature regolabili,
con l’unico obiettivo di far sentire bene chi li indossa.

Le immagini di corpi autentici, fieri nella loro diversità, sono diventate il miglior biglietto da visita per il
brand Festa Foresta, marchio indipendente di costumi e intimo creato da Laura Zura-Puntaroni. “We don’t necessarily want you to feel sexy, we want you to feel good”, è la priorità delle creazioni realizzate interamente con filati sostenibili, riciclati post-consumo, o biodegradabili.

Festa Foresta

La produzione è affidata a piccoli laboratori italiani, a conduzioni familiare, tra Marche e Lombardia. In ogni capo emerge la cura artigianale dei dettagli, come le doppie cuciture, mentre l’estetica non lascia spazio alle suggestioni di mode usa e getta, preferendo l’armonia di uno stile pratico ed essenziale.

5 designer donne, 4 idee di moda mare che invitano a essere un po’ come il kintsugi di noi stesse, dove
l’oro che ripara le crepe rotte di presunti difetti è la forza unica e irripetibile della nostra personalità. La sola
che valga la pena esibire, sempre.

Nella foto di copertina: dall’alto Festa Foresta e sotto da sx Le Chiappette, Nimé e Salmastra

Coloriage, un nuovo modello integrato di formazione e lavoro 

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di Laura Galloppo

Di sartorie sociali ce ne sono tante in Italia (eco-à-porter ve ne ha già fatte conoscere diverse).

Coloriage, nata nel 2019 nei locali dell’ex-mattatoio di Testaccio a Roma, è un’attività che impiega designer, sarti e migranti provenienti da Paesi a basso reddito, per favorirne un inserimento adeguato alle loro capacità. La sua caratteristica principale, l’elemento che la distingue dalle altre esperienze, è aver posto l’accento fin dall’inizio sulla formazione. I sarti migranti di Coloriage, infatti, partecipano a una scuola di moda gratuita che permette loro di arricchire le competenze per evolvere nel proprio sviluppo professionale.

Una formazione di eccellenza che ha portato oggi l’omonima cooperativa Coloriage, formatasi per stabilizzare il lavoro dei sarti migranti, a impiegare i primi otto studenti e studentesse del percorso formativo. Dagli inizi il progetto è interamente autofinanziato e la vendita dei capi prodotti dagli allievi sostiene i costi della scuola di moda. 

Un workshop di modellistica – courtesy Coloriage

All’inaugurazione della boutique Coloriage nel cuore di Trastevere, mi guardo intorno. Riconosco tra la folla dei partecipanti i sarti allievi. Indossano camicie in tessuto wax che hanno cucito e che prima ancora hanno disegnato e studiato sul cartamodello. Il metro da 150 cm poggiato sulle spalle, come un accessorio super cool e gli occhialetti colorati. Guardano i capi che sono esposti e che qualcuno indossa con disinvoltura.

I sarti al lavoro – courtesy Coloriage

Sono i sarti migranti il punto fermo dell’identità di Coloriage e lo comunicano in ogni gesto: Khassim, Bamba, Fara, Sayon, Bathie, Tania e Urmi. Queste ultime sono sedute su una poltrona intente a ricamare a mano i pezzi unici di una collezione di upcycling. Si sentono a casa, siamo noi che stiamo sbirciando nel loro angolo.

Valeria Kone con le artigiane rifugiate – courtesy Coloriage

L’avventura di Coloriage è iniziata solo 4 anni fa e già tante persone hanno attraversato gli spazi colorati del Villaggio Globale presso la Città dell’Altra Economia, dove è nata questa realtà. Il Covid poteva arrestare i lavori, ma la forza solidale di realizzare e donare mascherine in tessuto a chi non poteva permetterselo, ha fornito nuova linfa al gruppo di lavoro riaccendendo i motori della produzione. Da allora non si sono più fermati, capitanati da Valeria Kone, che ha abilmente creato una rete di collaborazioni sempre più prestigiose e culturalmente importanti.

Tra gli eventi più blasonati c’è Altaroma dove hanno presentato ‘Appunti per un’Orestiade africana a Testaccio’, una serie di kimono realizzati con garze di cotone di recupero stampate con fotogrammi delle riprese per l’Orestiade di Pasolini, girata in Uganda negli anni ’70, e la fiera internazionale di design Edit Napoli. Intensa è la collaborazione didattica con l’associazione A.I. Artisanal Intelligence creata da Clara Tosi Pamphili e Alessio de’ Navasques. 

All’inaugurazione c’è aria di partecipazione, la stessa che Coloriage coltiva, aprendo le porte della propria boutique-spazio culturale fatta con arredi vintage. I libri sui tessuti wax, che costituiscono la tela su cui si poggia il progetto, sono aperti su un largo tavolo centrale per permettere a tutti di guardare, sfogliare e approfondire. Alessio de’ Navasques, saluta con entusiasmo le persone che conosce e mostra la bellezza delle collezioni, che mettono insieme sartoria e manifattura italiana con influenze e craft dal mondo, pezzi unici e contemporanei, nati dalla combinazione di tessuti wax e deadstock italiani. 

La boutique – courtesy Coloriage
Upcycling e ricamo in collaborazione con Sara Basta – courtesy Coloriage

Manca ancora un tassello. L’artista Sara Basta ha collaborato con Coloriage per creare una collezione di upcycling dal titolo ‘Le parole non mi assomigliano più’, tratto da una poesia di Patrizia Cavalli: “Abbiamo scelto pezzi di poetesse contemporanee che più avessero a che fare con il corpo e abbiamo voluto tradurle in ricamo su indumenti già esistenti”, mi racconta Sara. Pezzi unici e ricamati a mano, con messaggi che evocano il rapporto tra abito e corpo.

Non accennano a fermarsi Urmi e Tania, le due ricamatrici di origine bengalese che fanno parte della squadra di Coloriage, arrivate qui tramite la mediazione di Asinitas Onlus

Fuori si continuano a distribuire samosa, il popolare street food di origine asiatica. Sapori differenti si mescolano per un momento partecipativo e inclusivo, esattamente come Coloriage.

Le immagini sono courtesy Coloriage e Laura Galloppo

Silente. La moda che sussurra …

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di Mariangela Bonesso

La moda etica di Francesca Iaconisi, designer del brand pugliese Silente, evoca l’atmosfera di un pomeriggio assolato, quando i rumori tacciono e il tempo dilatato nel silenzio restituisce una libertà oggi sempre più rara: ascoltarci, senza distrazioni, riscoprire cos’è per noi autentico, oltre le bacheche da scrollare e i profili da (in)seguire. 

L’abito sussurra silente ciò che sei“, Francesca ne è convinta. Il suo lab-store, nel centro storico di Lecce, propone un guardaroba minimal in fibre naturali, con una decisa preferenza per il lino. Creazioni quasi fiabesche ma che rimandano ai profumi e ai colori del paesaggio mediterraneo, come la campagna e i boschi del Salento.

Una creazione Silente

Francesca racconta che, oltre alle mani, nel tessuto ha l’abitudine di affondare anche il naso, orientando la ricerca materica su trame gentili ai sensi, dallo sguardo al tatto. Gli abiti Silente, come anche i top, le bluse, le gonne e i capispalla, sono pezzi unici o in serie limitata che evolvono nel tempo.

Una moda che si rigenera, attraverso forme volutamente morbide pensate per avvolgere il corpo, non costringerlo. Produzioni artigianali dove ogni dettaglio, dagli orli tagliati al vivo ai bottoni vintage, è una scelta di unicità e carattere contro l’uniformità di certe tendenze usa e getta. La donna che le veste, secondo Francesca, è libera di sentirsi un po’ fata e un po’ strega. O più semplicemente una guerriera che difende, con gentilezza, la propria libertà da ogni schema precostituito e dall’ansia di rincorrerlo. 

Un’estetica che abbraccia ogni aspetto della vita e che Francesca ha fatto propria fin dagli esordi, applicandola anche al design d’interni negli anni di Dimora Silente: tra il 2014 e il 2017 la sua sartoria condivideva gli spazi con il B&B DimorAntica, crocevia di eventi e artisti, all’interno di un antico palazzo a Copertino, i cui ambienti erano personalizzati in stile Silente. Una riuscita esperienza di coworking sostenibile. 

Chiediamo a Francesca un’idea moda per l’estate: il suggerimento ricade su Holly, un abito morbido e largo, di lunghezza midi, con manica a gomito e gonna arricciata, disponibile in due versioni, a righe bianche e nere. In abbinamento: un originale cappello alla Holly Hobbie in puro lino. L’abito poggia lievissimo sulle spalle, regalando quasi un effetto nudo di vento sulla pelle. Libertà di sentire per libertà di essere: cosa desiderare di più?

Silente fa parte anche della rete www.sfashion-net.it, piattaforma e community di brand, progetti e imprese di moda sostenibile.

Tutte le immagini sono courtesy Silente

Càpe, nel nome la passione per il bello e l’etico

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La prima cosa che ho chiesto a Nicoletta Baldo, fondatrice del marchio di abbigliamento Càpe, è come si pronuncia. Siamo così abituati a esprimerci e leggere termini anglofoni che, lo ammetto, lo pronunciavo all’inglese e mi sembrava anche logico, dato che il significato italiano, tra gli altri, è ‘cappa, mantello’. E Càpe è soprattutto un brand di capospalla e in particolare di trench.

Invece Nicoletta mi ha spiegato che Càpe è una parola dialettale veronese che usava sua nonna, la stessa nonna che le ha insegnato a cucire, ricamare e lavorare a maglia quando era bambina e così, nel nome del brand, la dedica alla nonna che esclamava ‘càpe!’, cioè ‘caspita!’, per sottolineare ciò che di bello e importante c’è nella vita.

E quale cosa più bella e importante, se non un progetto che unisce passione e lavoro, per giunta con la benedizione della nonna!

L’avventura di Càpe Concept inizia nel 2019; il primo pezzo è un impermeabile versatile, realizzato al 100% in Econyl, sovrapponibile a qualsiasi tipo di indumento, facilmente ripiegabile e riponibile in una bustina, contenente anche foulard e cintura. Pensato per chi viaggia ma anche per chi vive la città in maniera dinamica e veloce, il suo stile è ispirato ai tagli vintage del classico trenchcoat, rivisitato con tessuti e tecniche contemporanee e attente all’ambiente.

Gli ultimi arrivi di casa Càpe – p/e 2023

Da quel primo capo, la ricerca e la produzione si è allargata a capi imbottiti, sempre impermeabili: felpe, cappelli, pantaloni, il tutto all’insegna della praticità e della versatilità sostenibili. In primis l’attenzione ai materiali: l’ovatta interna in poliestere riciclato PET, il materiale esterno in Econyl e cotone organico GOTS, la zip sempre in nylon rigenerato Econyl.

I trench di Càpe portati sulle spalle a mo’ di zaino

Una caratteristica di tutti i capospalla è che hanno le bretelle all’interno, così che si possano portare a zaino quando si tolgono.

Da due stagioni, mi dice Nicoletta, abbiamo iniziato la vendita ai negozi, inizialmente attraverso le fiere di settore, poi con showroom sul territorio. E c’è anche il nostro e-commerce”. 

Etica anche la scelta della realizzazione dei prodotti, che avviene presso la cooperativa sociale SOS Donna, vicina alla sede del brand.

Tutti gli scarti di produzione vengono trasformati in borse/shopper, che servono da confezione ai singoli capi, mentre i cartellini sono in carta riciclata e legati con filo di cotone. Packaging plastic free, insomma!

A me verrebbe da dire ‘caspita!’

E allora dico ‘Càpe!’

Tutte le immagini sono courtesy Càpe Concept

Storie di vintage e di altri modi del vestire sostenibile

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Il mio amore per il vintage, ormai, è risaputo, come anche la mia volontà di diffonderne la pratica, tanto che, in uno dei moduli del corso sostenibilità per la moda per Superzoom Academy, l’ho inserito come uno dei modi del vestire sostenibile.

Quindi, sì, parlarne mi piace sempre e stavolta lo faccio con una storia particolare, perché a noi di eco-à-porter piacciono le storie, anche questo lo sapete bene.

Giorgiomaria Cornelio

A casa di un’amica, Giuditta Chiaraluce (tenete a mente questo nome, perché lo ritroverete) qualche anno fa ormai, in occasione di una vendita privata di abiti da lei realizzati, vidi un ragazzo, neanche ventenne, alto, magro, con lunghi capelli ricci e abbigliamento ricercato, venuto a provarsi qualche pezzo. Sedeva a gambe incrociate ed era molto dandy, ‘dandy’ nell’accezione positiva che ho io del termine, fine, bello, raffinato senza ostentazione. Un po’ mi faceva venire in mente Tadzio di Morte a Venezia.

Negli anni a seguire quel ragazzo l’ho visto ancora e poi ne ho sentito anche parlare perché, oggi che di anni ne ha 25, Giorgiomaria Cornelio è poeta, regista, curatore di vari progetti tra cui la casa editrice ‘Edizioni volatili’ e la festa della poesia ‘I fumi della fornace‘, di cui ho parlato nella mia pagina Instagram.

Il retro del vinile Hunky Dory – courtesy flickr.com/photos/hansthijs

Ma ciò di cui m’interessa parlare qui è del rapporto di Giorgiomaria con la moda ma soprattutto del suo amore per il vintage e per quei dettagli suggestivi venuti dalla musica, dal cinema, dalla pittura, come il retro del vinile di Hunky Dory di David Bowie (1971), dove lui indossa un paio di pantaloni palazzo, pantaloni che Giorgiomaria, per i suoi 17 anni, si è fatto rifare dalla sarta in una versione color tabacco che custodisce ancora oggi.

Poi c’è il cappotto bianco indossato da Kim Novak ne Vertigo – La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock (quando Giorgio me lo cita mi vengono i brividi, diciamo che è forse il mio ‘best movie ever’) “che, insieme al cappottino arancione disegnato da Hubert de Givenchy per la Hepburn in Colazione da Tiffany, costituisce probabilmente l’origine della mia ossessione per i cappotti in generale. Non è un caso, continua Giorgiomaria, che in entrambi i film vi sia la cura magistrale di Edith Head, tra le più grandi costumiste di sempre“. (anche qui, come non essere d’accordo?).

Quando rifletto sulle vesti, e sul perché della loro importanza, racconta, mi viene in mente il pensiero di un filosofo russo, Pavel Florenskij, che considerava le vesti dei santi nelle icone russe come organi luminosi. Diceva: «Non la carne e il sangue, ma le vesti erediteranno il Regno di Dio». Non è forse una delle più belle definizioni sul tema mai formulate?”.

Chiedo poi a Giorgiomaria da dove vengono gli abiti che indossa: “Gran parte sono stati fatti su misura per mia nonna da due formidabili sarte e sorelle: Lidia e Ivana. Sono nato dentro questa archeologia familiare, nato maschio ‘storto’, consegnato interamente a questo universo di donne che rifacevano il corpo con i tessuti più disparati. Una grande idea, fieramente contronatura: indossare per trasformarsi, continuamente, oltre qualsiasi corpo naturale. Accanto agli abiti di mia nonna, ho affiancato anche quelli fatti fare per me dalle stesse sorelle sarte, come i pantaloni di cui parlavo prima, oppure un abito creato dall’artista Giuditta Chiaraluce, i cui intrecci vegetali sulla seta hanno marcato il mio ultimo passaggio in Irlanda, terra in cui ho vissuto per cinque anni e che in parte continua a influenzare il mio sguardo“. 

Quindi non solo vintage ma anche artigianato, handmade, recupero tessile.

Poi continua: “Altre realtà che frequento con grande attenzione sono gli archivi vintage, come Sangueblu a Venezia, città dove attualmente vivo; Sangueblu mi ha coinvolto anche in una serie di scatti e ha risvegliato in me la passione per alcuni marchi e stilisti, anche diversissimi tra loro, come Issey Miyake, Missoni e Roberto Cavalli“.

Prima di chiudere, gli chiedo, da poeta e scrittore, che definizione darebbe di ‘moda sostenibile’ e lui così risponde: “Nel mio nuovo libro, La specie storta, c’è una sezione che si chiama ‘I panni e la cenere’, facendo riferimento all’antica usanza di lavare i panni con cenere e acqua bollente. In fondo il poeta cura la parola come una veste: «strofinando i panni dell’avvenire con la cenere di ciò che ci precede».

Avere cura di ciò che indossiamo, avere cura di ciò che ci viene lasciato, custodirlo e tramandarlo. Perché #lovedclotheslast . Grazie Giorgiomaria Cornelio, bella testimonianza.

Tutte le foto sono courtesy Giorgiomaria Cornelio

Dopo Piñatex, arriva Piñayarn

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Gli scarti alimentari sono diventati una fonte preziosa per chi è alla ricerca di materiali tessili alternativi; per la rubrica ‘eco-tessuti’ che tengo sul mensile Terra Nuova, ne ho scovati quasi come fossi andata a fare la spesa al mercato ortofrutticolo: dalle arance ai pomodori, dalle pesche alle mele all’uva e così via.

D’altronde l’ho sempre pensato, che la natura ci dà tutto ciò che ci serve, siamo noi che non le diamo abbastanza, piuttosto che glielo togliamo in modo brutale.

Ad ogni modo, tra i (non) tessuti sostenibili, forse uno dei primi trovati e già ampiamente testati, c’è Piñatex, similpelle ricavata dalle foglie dell’ananas. Qui ne abbiamo parlato, tra l’altro, grazie a Ziza Style Habits, brand di accessori creato da Giusy Leo Imperiale, che utilizza Piñatex come materiale primario.

Da qualche mese Ananas Anam, l’azienda che produce la pelle di ananas, ha lanciato Piñayarn e, oltre a fornire qualche informazione sul prodotto per i designer, brand e altri addetti ai lavori (e non) interessati, vorrei condividere con voi anche l’esperienza diretta di una stilista/artigiana che lo sta utilizzando/testando per le sue creazioni.

Intanto vi posso dire che Piñayarn è un filato realizzato appunto con le foglie di scarto dell’ananas, quindi riciclabile e biodegradabile. Creato secondo un sistema a ciclo chiuso, la sua produzione garantisce zero sprechi, mentre la filatura a secco evita l’utilizzo di acqua e di sostanze chimiche dannose.

Il filato Piñayarn – courtesy Ananas Anam

Essendo un filato molto versatile, può essere adattato a diversi prodotti dell’industria tessile, in particolare nell’abbigliamento, gli accessori e le calzature.

Ma per dirci qualcosa di più ecco Debora Frosini, già nostra ospite in varie occasioni, fondatrice del brand fiorentino Atelier Biologico, che propone una moda lenta, artigianale e sostenibile realizzata a telaio. Il primo approccio di Debora con Piñayarn è senza dubbio positivo: “Il filato si lavora bene (NdA considerate che Debora, come dicevo, lavora a telaio), al tatto è molto morbido e risulta già così prima del lavaggio. Essendo un prodotto nuovo, per ora ha solo una colorazione, panna, quindi io sto sperimentando con la tintura vegetale e presto vi saprò dire i risultati”.

Anche per quanto riguarda la finezza, per ora il filato è disponibile solo in due, una sottilissima, adatta per il jersey ma non per il tipo di telaio di Debora e una leggermente più corposa ma sempre fine, che è quella che ha lavorato la designer.

Nell’attesa dei prodotti finiti realizzati da Debora, che aggiunge che Piñayarn è adatto soprattutto alla primavera-estate, noi aspettiamo anche di vedere l’evoluzione di questo nuovo filato sostenibile sul mercato, se e quando usciranno nuove tonalità e finezze e come reagiranno gli addetti ai lavori.

A noi, come primo impatto, è piaciuto.

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