La moda etica di Francesca Iaconisi, designer del brand pugliese Silente, evoca l’atmosfera di un pomeriggio assolato, quando i rumori tacciono e il tempo dilatato nel silenzio restituisce una libertà oggi sempre più rara: ascoltarci, senza distrazioni, riscoprire cos’è per noi autentico, oltre le bacheche da scrollare e i profili da (in)seguire.
“L’abito sussurra silente ciò che sei“, Francesca ne è convinta. Il suo lab-store, nel centro storico di Lecce, propone un guardaroba minimal in fibre naturali, con una decisa preferenza per il lino. Creazioni quasi fiabesche ma che rimandano ai profumi e ai colori del paesaggio mediterraneo, come la campagna e i boschi del Salento.
Una creazione Silente
Francesca racconta che, oltre alle mani, nel tessuto ha l’abitudine di affondare anche il naso, orientando la ricerca materica su trame gentili ai sensi, dallo sguardo al tatto. Gli abiti Silente, come anche i top, le bluse, le gonne e i capispalla, sono pezzi unici o in serie limitata che evolvono nel tempo.
Una moda che si rigenera, attraverso forme volutamente morbide pensate per avvolgere il corpo, non costringerlo. Produzioni artigianali dove ogni dettaglio, dagli orli tagliati al vivo ai bottoni vintage, è una scelta di unicità e carattere contro l’uniformità di certe tendenze usa e getta. La donna che le veste, secondo Francesca, è libera di sentirsi un po’ fata e un po’ strega. O più semplicemente una guerriera che difende, con gentilezza, la propria libertà da ogni schema precostituito e dall’ansia di rincorrerlo.
Un’estetica che abbraccia ogni aspetto della vita e che Francesca ha fatto propria fin dagli esordi, applicandola anche al design d’interni negli anni di Dimora Silente: tra il 2014 e il 2017 la sua sartoria condivideva gli spazi con il B&B DimorAntica, crocevia di eventi e artisti, all’interno di un antico palazzo a Copertino, i cui ambienti erano personalizzati in stile Silente. Una riuscita esperienza di coworking sostenibile.
Chiediamo a Francesca un’idea moda per l’estate: il suggerimento ricade su Holly, un abito morbido e largo, di lunghezza midi, con manica a gomito e gonna arricciata, disponibile in due versioni, a righe bianche e nere. In abbinamento: un originale cappello alla Holly Hobbie in puro lino. L’abito poggia lievissimo sulle spalle, regalando quasi un effetto nudo di vento sulla pelle. Libertà di sentire per libertà di essere: cosa desiderare di più?
L’abito Holly … nelle dueversioni
Silente fa parte anche della rete www.sfashion-net.it, piattaforma e community di brand, progetti e imprese di moda sostenibile.
La prima cosa che ho chiesto a Nicoletta Baldo, fondatrice del marchio di abbigliamento Càpe, è come si pronuncia. Siamo così abituati a esprimerci e leggere termini anglofoni che, lo ammetto, lo pronunciavo all’inglese e mi sembrava anche logico, dato che il significato italiano, tra gli altri, è ‘cappa, mantello’. E Càpe è soprattutto un brand di capospalla e in particolare di trench.
Invece Nicoletta mi ha spiegato che Càpe è una parola dialettale veronese che usava sua nonna, la stessa nonna che le ha insegnato a cucire, ricamare e lavorare a maglia quando era bambina e così, nel nome del brand, la dedica alla nonna che esclamava ‘càpe!’, cioè ‘caspita!’, per sottolineare ciò che di bello e importante c’è nella vita.
E quale cosa più bella e importante, se non un progetto che unisce passione e lavoro, per giunta con la benedizione della nonna!
L’avventura di Càpe Concept inizia nel 2019; il primo pezzo è un impermeabile versatile, realizzato al 100% in Econyl, sovrapponibile a qualsiasi tipo di indumento, facilmente ripiegabile e riponibile in una bustina, contenente anche foulard e cintura. Pensato per chi viaggia ma anche per chi vive la città in maniera dinamica e veloce, il suo stile è ispirato ai tagli vintage del classico trenchcoat, rivisitato con tessuti e tecniche contemporanee e attente all’ambiente.
Gli ultimi arrivi di casa Càpe – p/e 2023
Da quel primo capo, la ricerca e la produzione si è allargata a capi imbottiti, sempre impermeabili: felpe, cappelli, pantaloni, il tutto all’insegna della praticità e della versatilità sostenibili. In primis l’attenzione ai materiali: l’ovatta interna in poliestere riciclato PET, il materiale esterno in Econyl e cotone organico GOTS, la zip sempre in nylon rigenerato Econyl.
I trench di Càpe portati sulle spalle a mo’ di zaino
Una caratteristica di tutti i capospalla è che hanno le bretelle all’interno, così che si possano portare a zaino quando si tolgono.
“Da due stagioni, mi dice Nicoletta, abbiamo iniziato la vendita ai negozi, inizialmente attraverso le fiere di settore, poi con showroom sul territorio. E c’è anche il nostro e-commerce”.
Etica anche la scelta della realizzazione dei prodotti, che avviene presso la cooperativa sociale SOS Donna, vicina alla sede del brand.
Tutti gli scarti di produzione vengono trasformati in borse/shopper, che servono da confezione ai singoli capi, mentre i cartellini sono in carta riciclata e legati con filo di cotone. Packaging plastic free, insomma!
Il mio amore per il vintage, ormai, è risaputo, come anche la mia volontà di diffonderne la pratica, tanto che, in uno dei moduli del corso sostenibilità per la moda per Superzoom Academy, l’ho inserito come uno dei modi del vestire sostenibile.
Quindi, sì, parlarne mi piace sempre e stavolta lo faccio con una storia particolare, perché a noi di eco-à-porter piacciono le storie, anche questo lo sapete bene.
Giorgiomaria Cornelio
A casa di un’amica, Giuditta Chiaraluce (tenete a mente questo nome, perché lo ritroverete) qualche anno fa ormai, in occasione di una vendita privata di abiti da lei realizzati, vidi un ragazzo, neanche ventenne, alto, magro, con lunghi capelli ricci e abbigliamento ricercato, venuto a provarsi qualche pezzo. Sedeva a gambe incrociate ed era molto dandy, ‘dandy’ nell’accezione positiva che ho io del termine, fine, bello, raffinato senza ostentazione. Un po’ mi faceva venire in mente Tadzio di Morte a Venezia.
Negli anni a seguire quel ragazzo l’ho visto ancora e poi ne ho sentito anche parlare perché, oggi che di anni ne ha 25, Giorgiomaria Cornelio è poeta, regista, curatore di vari progetti tra cui la casa editrice ‘Edizioni volatili’ e la festa della poesia ‘I fumi della fornace‘, di cui ho parlato nella mia pagina Instagram.
Il retro del vinile Hunky Dory – courtesy flickr.com/photos/hansthijs
Ma ciò di cui m’interessa parlare qui è del rapporto di Giorgiomaria con la moda ma soprattutto del suo amore per il vintage e per quei dettagli suggestivi venuti dalla musica, dal cinema, dalla pittura, come il retro del vinile di Hunky Dory di David Bowie (1971), dove lui indossa un paio di pantaloni palazzo, pantaloni che Giorgiomaria, per i suoi 17 anni, si è fatto rifare dalla sarta in una versione color tabacco che custodisce ancora oggi.
Poi c’è il cappotto bianco indossato da Kim Novak ne Vertigo – La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock (quando Giorgio me lo cita mi vengono i brividi, diciamo che è forse il mio ‘best movie ever’) “che, insieme al cappottino arancione disegnato da Hubert de Givenchy per la Hepburn in Colazione da Tiffany, costituisce probabilmente l’origine della mia ossessione per i cappotti in generale. Non è un caso, continua Giorgiomaria, che in entrambi i film vi sia la cura magistrale di Edith Head, tra le più grandi costumiste di sempre“. (anche qui, come non essere d’accordo?).
Il cappotto bianco di Kim Novak (credits likeabalalaika)… e quello arancio di Audrey Hepburn
“Quando rifletto sulle vesti, e sul perché della loro importanza, racconta, mi viene in mente il pensiero di un filosofo russo, Pavel Florenskij, che considerava le vesti dei santi nelle icone russe come organi luminosi. Diceva: «Non la carne e il sangue, ma le vesti erediteranno il Regno di Dio». Non è forse una delle più belle definizioni sul tema mai formulate?”.
Chiedo poi a Giorgiomaria da dove vengono gli abiti che indossa: “Gran parte sono stati fatti su misura per mia nonna da due formidabili sarte e sorelle: Lidia e Ivana. Sono nato dentro questa archeologia familiare, nato maschio ‘storto’, consegnato interamente a questo universo di donne che rifacevano il corpo con i tessuti più disparati. Una grande idea, fieramente contronatura: indossare per trasformarsi, continuamente, oltre qualsiasi corpo naturale. Accanto agli abiti di mia nonna, ho affiancato anche quelli fatti fare per me dalle stesse sorelle sarte, come i pantaloni di cui parlavo prima, oppure un abito creato dall’artista Giuditta Chiaraluce, i cui intrecci vegetali sulla seta hanno marcato il mio ultimo passaggio in Irlanda, terra in cui ho vissuto per cinque anni e che in parte continua a influenzare il mio sguardo“.
Quindi non solo vintage ma anche artigianato, handmade, recupero tessile.
Poi continua: “Altre realtà che frequento con grande attenzione sono gli archivi vintage, come Sangueblu a Venezia, città dove attualmente vivo; Sangueblu mi ha coinvolto anche in una serie di scatti e ha risvegliato in me la passione per alcuni marchi e stilisti, anche diversissimi tra loro, come Issey Miyake, Missoni e Roberto Cavalli“.
Prima di chiudere, gli chiedo, da poeta e scrittore, che definizione darebbe di ‘moda sostenibile’ e lui così risponde: “Nel mio nuovo libro, La specie storta, c’è una sezione che si chiama ‘I panni e la cenere’, facendo riferimento all’antica usanza di lavare i panni con cenere e acqua bollente. In fondo il poeta cura la parola come una veste: «strofinando i panni dell’avvenire con la cenere di ciò che ci precede».
Avere cura di ciò che indossiamo, avere cura di ciò che ci viene lasciato, custodirlo e tramandarlo. Perché #lovedclotheslast . Grazie Giorgiomaria Cornelio, bella testimonianza.
Gli scarti alimentari sono diventati una fonte preziosa per chi è alla ricerca di materiali tessili alternativi; per la rubrica ‘eco-tessuti’ che tengo sul mensile Terra Nuova, ne ho scovati quasi come fossi andata a fare la spesa al mercato ortofrutticolo: dalle arance ai pomodori, dalle pesche alle mele all’uva e così via.
D’altronde l’ho sempre pensato, che la natura ci dà tutto ciò che ci serve, siamo noi che non le diamo abbastanza, piuttosto che glielo togliamo in modo brutale.
Ad ogni modo, tra i (non) tessuti sostenibili, forse uno dei primi trovati e già ampiamente testati, c’è Piñatex, similpelle ricavata dalle foglie dell’ananas. Qui ne abbiamo parlato, tra l’altro, grazie a Ziza Style Habits, brand di accessori creato da Giusy Leo Imperiale, che utilizza Piñatex come materiale primario.
Da qualche mese Ananas Anam, l’azienda che produce la pelle di ananas, ha lanciato Piñayarn e, oltre a fornire qualche informazione sul prodotto per i designer, brand e altri addetti ai lavori (e non) interessati, vorrei condividere con voi anche l’esperienza diretta di una stilista/artigiana che lo sta utilizzando/testando per le sue creazioni.
Intanto vi posso dire che Piñayarn è un filato realizzato appunto con le foglie di scarto dell’ananas, quindi riciclabile e biodegradabile. Creato secondo un sistema a ciclo chiuso, la sua produzione garantisce zero sprechi, mentre la filatura a secco evita l’utilizzo di acqua e di sostanze chimiche dannose.
Il filato Piñayarn – courtesy Ananas Anam
Essendo un filato molto versatile, può essere adattato a diversi prodotti dell’industria tessile, in particolare nell’abbigliamento, gli accessori e le calzature.
Ma per dirci qualcosa di più ecco Debora Frosini, già nostra ospite in varie occasioni, fondatrice del brand fiorentino Atelier Biologico, che propone una moda lenta, artigianale e sostenibile realizzata a telaio. Il primo approccio di Debora con Piñayarn è senza dubbio positivo: “Il filato si lavora bene (NdA considerate che Debora, come dicevo, lavora a telaio), al tatto è molto morbido e risulta già così prima del lavaggio. Essendo un prodotto nuovo, per ora ha solo una colorazione, panna, quindi io sto sperimentando con la tintura vegetale e presto vi saprò dire i risultati”.
Le prove di tintura di Debora Frosinicon Piñayarn
Anche per quanto riguarda la finezza, per ora il filato è disponibile solo in due, una sottilissima, adatta per il jersey ma non per il tipo di telaio di Debora e una leggermente più corposa ma sempre fine, che è quella che ha lavorato la designer.
Nell’attesa dei prodotti finiti realizzati da Debora, che aggiunge che Piñayarn è adatto soprattutto alla primavera-estate, noi aspettiamo anche di vedere l’evoluzione di questo nuovo filato sostenibile sul mercato, se e quando usciranno nuove tonalità e finezze e come reagiranno gli addetti ai lavori.
Contatto Francesca una prima volta, mentre si trova ancora a Milano. Lei, dopo qualche giorno, risponde via mail dalla Tanzania, dove sta coordinando un nuovo progetto di shooting. Leggo il suo messaggio e mi domando: “Ma come fa a fare tutto?”. Francesca De Gottardo, CEO di Endelea, ha l’entusiasmo contagioso di chi nella vita, più che la meta, assapora il percorso senza sconti di rischio.
Quando Barbara mi ha chiesto di intervistarla per eco-à-porter, ho ripensato al suo sguardo, incrociato tempo prima sulle pagine del Magazine LEI: occhi sinceri, autentici come le prime parole di una storia che mira dritta al cuore. E chi conosce Endelea, sa che è esattamente così: una realtà di moda etica tra Italia e Tanzania, nata come start up nel 2018 e divenuta società benefit dal 2020. Un’impresa che parla di inclusività, di creatività senza confini fisici ma rispettosa dell’autenticità delle tradizioni.
Le collezioni Endelea di abiti e accessori sono disegnate a Milano e realizzate da sarte e sarti a Dar es Salaam, in Tanzania. Le stoffe, come Wax, Kikoi, Maasai, sono acquistate in loco mentre la distribuzione avviene in tutta Europa tramite il sito ufficiale.
Francesca De Gottardo alla premiazione Young Designer DHL Award 2022
Un mix virtuoso di relazioni e competenze tra due continenti, che si completa con una percentuale di ricavi reinvestita nella formazione dei dipendenti in Africa e nella realizzazione di progetti educativi per scuole e università tanzaniane.
Lo scorso autunno, in occasione della prima partecipazione di Endelea alla Milano Fashion Week tra i ‘Designers for the Planet’, il brand ha ricevuto due prestigiosi riconoscimenti: il Premio Camera Buyer e il Young Designer DHL Award 2022.
La collezione inverno Maasai, firmata dalla designer e creative director Alessandra Modarelli, ha sorpreso anche per l’innovativo impiego del tessuto: il Maasai è stato infatti trapuntato e imbottito con fibre sostenibili. Il risultato è una capsule colorata e calda di giacche e gonne reversibili, sciarpe oversize e colletti.
Maxi abito Maasai e giacca reversibile trapuntata
Oltre al Masaai trapuntato, nella collezione è presente anche il tessuto nella versione check, più leggera e prevalentemente in cotone, valorizzata da ruche, volant e maxi balze, e quella Shuka, più pesante e adatta a un look punk-chic, con gonne frangiate e pantaloni palazzo.
I colori riflettono significati diversi: il rosso e il rosa evocano il coraggio, il bianco la purezza, il verde la natura come fonte di vita mentre il giallo richiama l’energia del sole. La collezione Maasai ha ottenuto anche il patrocinio della Maasai Intellectual Property Initiative (MIPI), che tutela la cultura Maasai nel mondo.
Non posso non chiedere a Francesca quale sia, per Endelea, il limite oltre cui l’interpretazione di tessuti, che non appartengono alla propria cultura, più che sinergia creativa diventa quasi un modo ‘sbagliato’ di usarli.
Spiega Francesca: “Per Endelea il limite è e sarà sempre quello che ci danno le comunità con cui collaboriamo, che di una determinata cultura sono i depositari: ci fidiamo delle persone e cerchiamo di prendere solo decisioni che rispettino tutti i protagonisti di ogni racconto – dai Maasai ai designer locali, dai pittori Tingatinga al team tanzaniano che lavora alla manifattura delle collezioni. La parola chiave per Endelea è sempre rispetto, e ci sono state anche occasioni in cui ci siamo tirate indietro e abbiamo rinunciato a qualcosa per non rischiare di far passare un messaggio meno autentico. Nel caso della collezione Maasai, ad esempio, tutti i capi sono stati realizzati in collaborazione con i Maasai del MIPI, che ci hanno anche illustrato i significati dei singoli colori e ci hanno consigliate sul modo migliore per mostrare attraverso le foto gli elementi della loro cultura, in modo che i nostri contenuti fossero a tutti gli effetti un amplificatore della loro voce, più che una voce sé stante che parla di cultura Maasai. La differenza tra cultural appropriation e appreciation è molto sottile, ma alla fine la differenza la fanno sempre le persone e il loro atteggiamento”.
Giacca reversibile trapuntataColletto imbottito MaxClutch trapuntata con ruche
Endelea, il proprio tratto distintivo, lo porta scritto anche nel nome: in lingua Swahili, significa ‘andare avanti senza arrendersi alle difficoltà’ mentre il claim DREAM BOLD invita a sognare in grande, avendo magari anche il coraggio di attuare un cambiamento. Francesca e il suo gruppo cercano di farlo ogni giorno, investendo molto sulle donne con un team all’85% femminile, azzerando il gender pay gap e garantendo alle sarte e ai sarti in Tanzania uno stipendio ben più alto della media locale, oltre a un’assicurazione sanitaria per sé e le famiglie.
Un impatto positivo sulle persone che genera un effetto altrettanto positivo sull’ambiente: la filosofia sostenibile del brand passa anche dall’acquisto di tessuti africani presso produttori locali o in alternativa realizzati ad hoc da piccoli rivenditori del posto, così da rendere la filiera trasparente, equa e sostenibile dal punto di vista ambientale.
Anche il packaging è rigorosamente curato per essere plastic free: la busta che contiene i capi deriva da tessuti di scarto delle precedenti collezioni mentre le etichette sono in carta riciclata e i sacchetti compostabili. Perché ogni azione, anche la più piccola, può veramente fare la differenza.
Endelea alla Milano Fashion Week
Chiedo a Francesca quale sia, nell’alfabeto della sostenibilità, la parola che più di altre può convincere a un acquisto consapevole: “Futuro, risponde sicura. Che le nostre scelte abbiano un impatto a livello ambientale, oltre che umano, è una certezza ormai sotto gli occhi di tutti. Un impatto che sta crescendo a livello esponenziale e ci espone al rischio di un futuro molto diverso da quello che immaginiamo, costellato di eventi drammatici e dove le nostre scelte saranno comunque molto ridotte, che lo vogliamo o no. Quindi è per questo futuro, che non è remoto ma anzi pericolosamente vicino, che dobbiamo modificare i nostri comportamenti di oggi: ogni acquisto porta con sé una scelta”.
Penso a mia figlia, 9 anni, quando in una scatola da buttare vede spazio per la fantasia, e a mia nonna, sarta in periodo di guerra, che risvoltava i colletti dei cappotti e reinventava per le clienti gli stessi vestiti a colpi di forbice, aggrappandosi alla fiducia in un domani diverso.
Hai ragione, Francesca: qualunque sia il nostro presente, un’alternativa c’è sempre e il futuro che vogliamo, fosse solo un pezzettino, possiamo costruirlo anche noi. Scegliendo, ogni giorno.
Humana People to People è tante cose insieme: un modello di business peculiare, una rete di vintage shop riconoscibili, un network di collaborazioni che gli permette una presenza capillare sul territorio, una realtà che ogni anno realizza oltre 1.200 progetti di sviluppo nel mondo, contribuendo a migliorare le condizioni di vita di circa 10 milioni di persone.
Così mi trovo un po’ in difficoltà nell’affrontare l’universo Humana. Da dove iniziamo?
Probabilmente da quello che ognuno di noi ha visto almeno una volta: gli iconici contenitori gialli, circa 5.000 in tutta Italia, con cui Humana People to People effettua la raccolta di abiti usati. Poi cosa succede?
Sul sito di Humana la filiera è tracciata molto bene, chiunque può capire il percorso di una maglietta che finisce nella raccolta dell’usato, raccolta realizzata a titolo gratuito per le amministrazioni comunali convenzionate.
L’hub di Pregnana Milanese è il cuore dell’attività di smistamento che svolge Humana; la maggior parte degli abiti raccolti, il 67,5%, può essere riutilizzata come vestiario ed è immessa nelle rete di punti vendita Humana, il 25,5%, è destinato al recupero delle fibre e il restante 7% al recupero energetico.
Se siete stanchi di sentire numeri passiamo all’aspetto più glamour di Humana, ossia i circa 500 negozi solidali in Europa, di cui 12 vintage shop in Italia.
Le città baciate dai vintage shop Humana sono Milano, Torino, Verona, Bologna, Roma e, da poche settimane, anche Firenze. Il nuovo negozio fiorentino si trova in centro storico, via delle Belle Donne, al civico 4R. Dagli anni ’60 ai ’90 via libera alla ricerca del capo ben fatto, dal maglione in pura lana al trench iconico e a tutto quello che può accontentare lo stile in maniera etica.
L’inaugurazione dello store …di Firenze
Tutto negli shop Humana Vintage punta a un’esperienza glamour: l’allestimento, l’arredamento, specchi ben posizionati, vetrine accattivanti e collezioni che si susseguono di stagione in stagione, creando nuovi motivi per fare un salto in boutique.
Il vintage ha perso la connotazione polverosa di un tempo. Oggi è estremamente trendy vestirsi con abiti e accessori retrò, potendo, in questo modo, accontentare le tasche e creando uno stile più particolare e ricercato di quello omologato che il mass market e la fast fashion offrono.
Dalla raccolta, siamo entrati negli shop Humana Vintage, e ora? Non è finita qui.
Una caratteristica di Humana People to People che non può passare inosservata è la sua capacità di costruire partnership con tantissimi attori e stakeholder molto variegati tra loro, con l’unico obiettivo di creare un mondo più equo e incentivare l’economia circolare.
Humana People stringe partnership con aziende, onlus del terzo settore, enti e istituzioni pubbliche e private. Non esiste una partnership impossibile. Non dovrete meravigliarvi, ad esempio, delle 1.000 camicie donate all’artista Kaarina Kaikonnen, esposte a Milano per la mostra Tied Together alla Rotonda di via Besana e presso la Galleria M77 (via Mecenate 77).
Molto forte è il legame con aziende con cui vengono co-progettate attività di responsabilità sociale d’impresa; le iniziative di CSR possono assumere volti diversi: campagne abbigliamento, donazioni in-kind, match giving e volontariato aziendale, cause-related marketing. Quali sono le caratteristiche che li accomunano? Si tratta per lo più di progetti di lungo periodo, si preferiscono progettualità che coinvolgano molti stakeholder, e quelli che permettano una buona comunicazione. Il buon vecchio adagio è ancora valido ‘fai bene e fallo sapere’.
Se vi state chiedendo qual è l’ultima partnership sottoscritta da Humana, per rispondere basta recarsi in uno qualsiasi degli 800 negozi OVS e adocchiare il box della campagna ‘Dona i tuoi abiti usati a Humana’. I clienti OVS possono portare i loro indumenti inutilizzati e donarli, riceveranno in cambio un voucher del valore di 5€ per i futuri acquisti.
Tenete gli occhi ben aperti perché abbiamo motivo di credere che ritroverete un pezzetto di Humana People to People in giro sempre più spesso, e in ogni dove.
Pensarci ‘clessidra’ o ‘triangolo’ può far sorridere ma la teoria alla base della body shape, intesa come conoscenza e valorizzazione delle proprie forme, non è solo una pratica ormai consolidata ma anche una valida exit strategy dal rigore delle taglie.
È la scelta dell’outfit, non il tipo di fisicità, a essere messa in discussione e mai in un’ottica penalizzante: il gusto personale non si giudica ma lo si affina in accostamenti e combinazioni per esaltare la nostra unicità. Date queste premesse, per quanti amano la moda sostenibile, è naturale chiedersi se anche in termini di volumi e proporzioni scegliere l’eco-style possa fare la differenza.
Elisa Negro
Qualche idea in proposito l’abbiamo avuta venerdì 4 novembre, curiosando nell’atelier milanese di Nicoletta Fasani in occasione dell’evento ‘Body shape e moda sostenibile’ con Elisa Negro, consulente d’immagine e fondatrice del brand #disTURBtheCANCER, che produce turbanti in fibra di latte, specificatamente pensati per donne affette da alopecie, in particolar modo di tipo chemioterapico.
La differente resa delle fibre sostenibili, Elisa la sperimenta anche nelle sessioni di personal styling: “I tessuti naturali con mano serica, se drappeggiati in maniera strategica, sono in grado di abbracciare le curve di una donna, donando loro ulteriore sensualità. Hanno una resa estetica che rimanda messaggi di delicatezza e, quindi, di estrema femminilità. Quando, invece, non vengono strutturati e sono lasciati cadere verso il basso, restituiscono visivamente un effetto scivolato, capace di verticalizzare le parti più giunoniche di un corpo”.
E per chi ha necessità di aggiungere volume? “In una sezione più minuta, consiglia Elisa, si opterà per la lana grossa, la canapa e il lino. La loro struttura più fitta, infatti, avrà una funzione riempitiva e armonizzante. Pensiamo a una donna triangolo, body shape caratterizzata da una sezione del corpo superiore più minuta rispetto a quella inferiore: per il topwear funzioneranno tessuti più strutturati. Per la sezione lato B/gambe, avranno la meglio tessuti cascanti e più sottili”.
Ma vestire le forme del corpo significa anche ragionare sulle forme dell’abito. Lo sa bene Nicoletta Fasani, le cui collezioni nascono dallo studio di forme geometriche semplici, replicate in abiti trasformabili e componibili. Oltre che dalla scelta dei tessuti, la sostenibilità è quindi garantita anche dalla possibilità di personalizzare più volte l’outfit, sovrapponendo stoffe o indossando lo stesso capo in modo differente, proprio perché lo consentono le linee pulite e l’armonia di volumi alla base della sua stessa ideazione.
La Maglia Nodo, ad esempio, veste le forme in base al modo in cui la si intreccia, mentre la Maglia Cocò, più lunga dietro e più corta davanti, è una taglia unica permessa dalla vestibilità del taglio svasato (le vedete nella copertina). “Mi piace giocare con colori e forme, senza troppo rigore, dice Nicoletta, mi piace dare nell’occhio, ma non troppo. Essere raffinata, senza sbrilluccichi e tacchi. Mi piace osare il giusto. Per divertirmi e riderci sopra”.
E se questo è il mood, non ci sono ‘clessidra’, ‘triangolo’ o ‘ovale’ che non possano dirsi soddisfatte.
Lo ammetto, è stato il nome del brand a colpirmi, per assonanza. E allora ci sono andata a guardare e mi è piaciuto, così che ho deciso di parlarvene.
Haute-à-Porter è un marchio fondato dall’artista e designer messicana Jehsel Lau ed è specializzato nell’abbigliamento per la danza e le arti performative, difatti il taglio sportswear è molto incisivo.
La sua nuova collezione, ‘Caos’, presentata all’ultima Fashion Week milanese (un altro degli argomenti tralasciati causa Covid) nasce dall’interesse della designer per gli studi neuro-scientifici, secondo cui i nostri pensieri possono influire positivamente o negativamente sul nostro corpo, migliorandolo o danneggiandolo.
Un look della collezione ‘Caos’
La scelta e l’uso di parole e riflessioni corrette possono attirare in noi salute, benessere, successo e sane relazioni, ma al contrario, anche, ammalare il corpo se le idee sono distruttive e negative. Questo perché il cervello non distingue tra un’emozione che sta accadendo per un fatto reale o un’emozione derivata dai nostri pensieri; così facendo si generano sostanze e ormoni, nel lungo periodo, dannosi.
“La collezione, racconta la designer, inizia da un dipinto fatto in un momento di crisi durante la pandemia, in una fase di isolamento e di incertezza, in cui era necessario muovere la mente in cerca di motivazione e speranza. Credo che quando abbiamo momenti di crisi, arriva un ‘Caos’ di pensieri che prendono potere nella nostra mente, prima come piccole pennellate che, se incoraggiate, si trasformano in pensieri profondi, come macchie giganti nel nostro cervello che possono coprire tutte le connessioni neurali, a volte creando sentimenti di depressione o di ansia profonda.”
La capsule collection ‘Caos’ adotta la filosofia dell’upcycling, riutilizzando i materiali delle stagioni passate e i ritagli in eccesso su finiture fatte intenzionalmente a mano. In generale il pensiero dietro il lavoro di Jehsel Lau è quello ‘zero sprechi’, con il recupero tessile, l’handmade e processi di produzione etici che permettono risparmio di acqua all’origine ma anche a capo finito, trattandosi di tessuti che si sporcano poco, repellenti ai liquidi e ai batteri.
I 10 look sono genderless e interscambiabili per creare infinite combinazioni, hanno un appeal sportivo, come dicevo all’inizio e colorati, perché il colore incarna il ‘Caos’, irriverente e invasivo, che a poco a poco si attenua in sezioni piatte e armoniose, fino ad arrivare a una rete di pensiero sereno, interpretata dal colore nero, che sembra finalmente dominare.
Dal colore …al nero
La collezione di Haute-à-Porter è stata esposta a Milano nei giorni della Fashion Week, adesso e per tutto novembre, in Messico, è presentata tramite eventi privati che prendono il nome di ‘Tour dell’Amicizia e della Comunità’, in cui i membri e la community del marchio possono acquistare la collezione in anticipo e supportare così il brand nella produzione con la filosofia ‘no waste’.
Carina come iniziativa, no?
Tutte le immagini, inclusa la copertina, sono courtesy @Haute-à-Porter
Quando sono stata a Firenze per la Fashion Revolution, ad aprile scorso, la mia amica Debbie aka Debora Frosini, designer e fondatrice del marchio Atelier Biologico Firenze, mi ha portato, tra le altre cose, a visitare Female Arts in Florence (FAF), galleria d’arte e concept store tutta al femminile a Borgo San Frediano, nel centro storico fiorentino.
La fondatrice Giulia Castagnoli
Progetto originale e strettamente legato all’economia circolare e alla moda etica, mi sono ripromessa di dargli spazio nel blog ed eccolo qua.
Fondato nel 2021 dalla graphic designer Giulia Castagnoli, FAF, prima che galleria e shop, è uno spazio libero gestito dalle donne per le donne, un luogo di aggregazione e collaborazione in cui la parola chiave è ‘indipendenza’. Indipendenza di gestione, di creazione ma al contempo condivisione di attività ed esperienze, per fornire una risposta positiva e ottimista al clima di esclusione e sottovalutazione delle donne, che si respira, soprattutto negli ambienti lavorativi.
Le attività sono quelle legate alla creatività nelle sue varie espressioni: pittura, scultura, moda, artigianato, insomma le arti, che in un luogo come Firenze, che proprio nelle arti e nei mestieri fonda le proprie tradizioni, rappresenta una scelta apparentemente coerente ma anche e soprattutto di controtendenza, perché storia e tradizioni, nel progetto multiculturale di FAF, devono rappresentare una base solida per il futuro, per aprirsi all’altro e al contemporaneo.
Compare spesso il prefisso ‘multi’ nelle varie accezioni di FAF, perché è tante cose insieme, non solo in ciò che si propone ma anche in ciò che è, fisicamente: due piani, uno superiore come spazio per co-working, mostre, esposizione e shop con vendita di prodotti artigianali contemporanei di alta qualità e uno inferiore per corsi, laboratori, workshop ed eventi privati.
Un coloratissimo angolo dello spazio di FAF
Altra parola d’ordine, oltre che indipendenza, ‘condivisione’: nell’era di quella che ormai è definita ‘sharing economy’, anche gli spazi lavorativi vengono condivisi. Non si tratta di una semplice scelta economica, ma di una visione che concepisce l’ambiente di lavoro come un modo per entrare in contatto con realtà in cui far convergere competenze e talenti.
Lo spazio di FAF da un’altra prospettiva
Ma chi sono le creative che al momento fanno parte di FAF? Quali le loro peculiarità, gli ambiti di lavoro? Sono diverse e mi piacerebbe parlare di tutte ma siccome qui ci occupiamo di eco-moda, approfondirò quattro profili più attinenti alle nostre tematiche, però vi invito, anzi, vi raccomando di visitare il profilo Instagram di FAF per conoscerle tutte.
Claudia Cucchi è brasiliana, vive a Firenze da più di 20 anni, è orafa e il suo jewelry brand si chiama Cacu Lab. Anche se non ci occupiamo di gioielli (non ancora almeno), l’ho scelta sia perché lavora con il PLA, una bio-plastica degradabile ricavata da materie prime rinnovabili, sia perché le sue creazioni sono realizzate con la stampa 3D, di cui abbiamo parlato riguardo al lavoro della designer Danit Peleg, che poi lei modella e perfeziona a mano.
Claudia Cucchie uno dei suoi gioielli realizzati con il PLA
Florence I.J.Franks è nata e cresciuta a Firenze da una famiglia italo-nigeriana. Il suo marchio ERIRI, da ‘filo’, ‘nodo’, ‘fibra’ in Igbo, una delle lingue parlate in Nigeria, crea accessori in lino, tessuto simbolo del brand, proveniente da partner che sostengono gli stessi processi slow, il patrimonio locale e il rispetto per i produttori e per la terra.
Florence I.J.Frankse una delle sue creazioni ERIRI
Graciela Avendano è una designer messicana, vive a Firenze e la sua linea Pitti Vintage nasce dalla passione per gli animali e per una moda tassativamente cruelty-free. Le sue borse sono realizzate a mano in pelle vegana con accese combinazioni cromatiche, mentre i materiali per gli interni spaziano dalla tela di cotone rivestita in poliuretano ai tessuti per tappezzeria in cotone organico al cartone riciclato.
Graciela Avendanoe alcune delle sue borse vegane
Ultima ma non meno importante Debora Frosini, che ho citato all’inizio, fiorentina doc e fondatrice di Atelier Biologico, con cui propone una moda lenta, artigianale e sostenibile realizzata a telaio. La sua filosofia è un mix d’ispirazione tra natura, tradizione e artigianalità per capi di alta qualità di una bellezza senza tempo. L’ultima collaborazione di Debora con il designer emergente Moses Moshions a Pitti Uomo.
Debora Frosinie uno degli abiti di Atelier Biologico accompagnato dalla stola
Anche la fondatrice Giulia Castagnoli non è da meno con Ink Pink, arte indossabile realizzata con la serigrafia su capi e calzature fatti a mano in Toscana.
Una t-shirt … e una stringata serigrafate da Giulia
Insomma tostissime queste donne e la loro arte, andatele a conoscere tutte, per chi è a Firenze o ci passa consiglio vivamente una visita alla galleria, ne rimarrete affascinati, come lo sono rimasta io. E’ un luogo vivace, colorato, raffinato, pulsante di vita, sicuramente proveniente dalle opere delle artiste, che rivelano la loro anima e l’anima del progetto.
Il gruppo FAF al completo
Tutte le immagini, compresa quella di copertina, sono courtesy @FAF
Quando ho contattato Paolo A. Giordano per parlare del suo brand Delhicious, l’ho trovato piacevolmente sorpreso: “E’ la prima volta che mi pubblicano”.
Uno dei modelli Delhicious
Beh, per me è solo positivo poter parlare di questa piccola realtà sospesa tra Scoglitti, borgo marinaro del comune di Vittoria, Ragusa, con affaccio sul golfo di Gela, e l’India, vastissima e diversificata, da cui Paolo, imprenditore 29nne, ha avviato, nel 2019, la propria attività.
Piccolo passo indietro: Paolo è impiegato in un negozio etnico del Nord Italia e per lavoro si reca a Delhi; successivamente al suo licenziamento, conoscendo il territorio e avendo già stabilito dei contatti, decide di mettersi in proprio e fonda Delhicious, crasi di ‘Delhi’ e ‘delicious’ (delizioso in inglese), marchio che realizza capi ricavati da Sari indiani riciclati.
Il Sari è l’abito tradizionale che portano le donne indiane e ha delle origini antichissime, tanto da essere uno dei pochissimi indumenti tramandato per così tanti secoli fino ai giorni nostri.
Dai Sari originali che, come mi racconta Paolo, sono reperiti in depositi localizzati a Mumbai e nel Nord dell’India, si ricavano i tessuti per uno, al massimo due capi, dato che la grandezza di ognuno è di circa 5,5 metri quadrati, per cui già questa è una caratteristica che conferisce al prodotto finale unicità.
Completo con gonna… e con pantagonnaTutina incrociata KaliTutina incrociata Kali
Poi c’è un altro valore aggiunto che è quello della datazione dei Sari, che risalgono spesso agli anni ’70/’80/’90, quindi stoffa e stampe vintage che finiscono in un abito nuovo. Questa è la cosa che mi affascina di più.
Modelli e tagli sono giovani e contemporanei, con taglie che arrivano fino alla 52, per una moda che Paolo vuole inclusiva e adatta a ogni tipo di forma, quindi le linee restano fluide e morbide, anche per assecondare il tessuto originale, concepito comunque per un abito comodo, non costrittivo.
Completo con top incrociato
Ma la produzione a chi è affidata e, soprattutto, in quali condizioni lavorano gli operai? Il laboratorio si trova nello stato del Rajasthan e vi lavorano sia uomini sia donne che si dividono i compiti in base a esigenze e capacità; Paolo lo ha visitato nel 2019, prima del Covid e spera di tornare presto ma nel frattempo mette le mani sul fuoco sul proprio fornitore e sul fatto che coloro che si occupano di cucire e confezionare gli abiti ‘delhiziosi’ hanno paghe e condizioni di lavoro dignitose.
Delhicious tratta anche capi in cotone e i bottoni che li compongono sono in legno di cocco ma il must resta l’abito ricavato dal Sari, e se è vintage è pure meglio.
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