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Cloov, lunga vita agli abiti!

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Quella di allungare la vita dei vestiti è diventata una pratica raccomandata, non solo ai consumatori, che a loro volta la esigono dai marchi, ma anche all’intero comparto moda. Esistono già dei brand che hanno inserito nel proprio store online la possibilità di restituire il pezzo o i pezzi acquistati per farli riparare, cambiarli o perché arrivati a fine vita.

Olimpia Santella e Chiara Airoldi

Si muove in questo ambito Cloov, fashion-tech startup milanese fondata da Olimpia Santella e Chiara Airoldi, rispettivamente Chief Executive Officer e Chief Operating Officer.

Che cos’è Cloov? È essenzialmente un software che permette a brand e multi-brand di moda di lanciare in pochi mesi una piattaforma rental e di vendita second-hand brandizzata.

I brand possono rivolgersi a Cloov per introdurre nuove strategie di circolarità, come quella di allungare la vita dei capi, educando così ai consumi e al potenziamento del valore dei prodotti.

Per facilitare l’adozione di un modello circolare, Cloov offre un servizio end-to-end ai propri partner: creazione del sito di re-commerce in white label per il noleggio e/o il second-hand, gestione degli ordini e gestione dei processi logistici (incluso lavaggio e ricondizionamento). 

La promozione di un’offerta circolare non è solamente spinta dalla richiesta dei consumatori, in particolare Gen Z e Millennials, ma anche dalla direttiva europea ‘Waste Framework Directive‘ che richiede ai player della moda di adottare misure per prevenire i rifiuti e ridurre l’impatto ambientale dei propri prodotti e servizi.

La ‘Waste Framework Directive’ stabilisce una gerarchia in cinque fasi, ovvero un ordine di preferenza per la gestione e lo smaltimento dei rifiuti.

A oggi la startup lavora con diversi partner, pionieri di settore, tra cui Atelier Emé, parte del gruppo Calzedonia. Nel corso dell’anno, sono previsti altri importanti lanci con marchi italiani di grande tradizione.

Rapporto tra donne e moda: bonprix ci dice così

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di Andrea Legranzini

la moda è uno specchio dell’identità. Come marchio di abbigliamento internazionale con un target prevalentemente femminile, volevamo scoprire il significato che ha per le donne di oggi e quali aspettative hanno in merito“, spiega Carolin Klar, Direttore Generale Acquisti, Approvvigionamenti e Responsabilità d’Impresa di bonprix.

Sappiamo che bonprix, gruppo tedesco specializzato nell’e-commerce di abbigliamento con quartier generale situato a Valdengo, nel biellese, è un brand di fast fashion. Ma sappiamo anche che, giunto al 26° anno di attività, sta spingendo sempre più sulla sostenibilità, sia dal punto di vista ambientale sia sociale (a questo proposito vi rimando alla pagina dedicata). Apprezziamo l’impegno e ci auguriamo che tenga fede alle promesse fatte.

Qui vogliamo parlare del ‘bonprix Fashion Report 2023‘, uno studio completo che fa luce sul rapporto delle donne con la moda: è emersa una nuova consapevolezza, che le rende più sicure di sé e con le idee chiare in fatto di stile personale.

Troviamo i risultati riassunti in 4 aree; la prima, ‘Feel: moda, tendenze e guardaroba‘, riguarda la scelta di un guardaroba consapevole, scelto per se stesse. L’85% del campione ritiene, infatti, che i nuovi trend favoriscano un ideale di bellezza troppo standardizzato, al contrario di ciò che desiderano le donne ‘reali’ ovvero uno stile più personale e definito da abiti acquistati perché donanti.

Bonprix Fashion Report 2023

La seconda area è ‘Act: acquisti, budget e ispirazioni‘; auto-gratificarsi è un comportamento d’acquisto molto diffuso e le occasioni di sconto sono ottimi driver, anche se noi potremmo aggiungere che l’acquisto andrebbe sempre fatto in modo responsabile. Il budget dedicato viene destinato ad acquisti in store a sfavore di quelli online, ma se l’e-commerce resta sempre un passo indietro, ciò non riguarda la ricerca di ispirazioni su social e web magazine. 

Terza ma non meno importante è ‘Change: sostenibilità e innovazione‘; destreggiarsi tra capi certificati come sostenibili, sebbene ci sia la volontà di acquistare in modo responsabile, non è sempre possibile, soprattutto quando il costo impatta sul consumatore. Il second-hand, invece, è un’opzione d’acquisto sempre più in crescita.

Infine, ‘Empower: accettazione del proprio corpo‘, quasi tre quarti del campione intervistato si definisce sicuro di sé, con un’ottima accettazione del proprio corpo e la consapevolezza di poter indossare ciò che piace. Il desiderio è quello di avere più abbigliamento per tutte le taglie.

Significativi i risultati di questo studio, soprattutto se ci concentriamo sulla sostenibilità, che è l’aspetto che ci interessa maggiormente: consumatrici consapevoli, sia del proprio corpo che degli acquisti, attente al lato etico ma contemporaneamente un po’ confuse sulle informazioni fornite dai marchi e anche dai prezzi, non propriamente democratici. Bene il second-hand, mentre c’è richiesta di più varietà nelle taglie.

I brand e le aziende prendano nota.

Le immagini sono courtesy bonprix

Centri di riparazione per un’economia circolare

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Mettere al primo posto le persone. Alcune aziende cercano di farlo, non solo internamente, nella propria filiera di produzione ma anche collaborando a iniziative che coinvolgono più soggetti; succede così che un famoso marchio di abbigliamento outdoor come Patagonia, impegnato a essere sempre più etico, dia vita a progetti che uniscono moda e sociale, per un’economia circolare.

È il caso di United Repair Centre (URC), iniziativa di Makers Unite, impresa sociale di Amsterdam che sostiene l’inserimento dei rifugiati attraverso la manifattura creativa e il design; fondata nel 2021, URC ha la missione di ‘riparare’ l’industria della moda un pezzo alla volta, mettendo al primo posto le persone.

United Repair Centre fornisce soluzioni di produzione tessile circolare e servizi di riparazione per i marchi, creando al contempo opportunità di lavoro per rifugiati e in generale persone con difficoltà di accesso al mercato del lavoro.

Patagonia aveva già collaborato per l’apertura della sede URC di Amsterdam ed è presente anche nello United Repair Centre aperto di recente a Londra, insieme a Fashion-Enter, pluripremiata impresa sociale senza scopo di lucro che, grazie alla propria accademia di formazione, approvata dal Governo, permette alle persone svantaggiate di emanciparsi.


 
L’URC di Londra vanta inoltre la consulenza strategica dell’Institute of Positive Fashion del British Fashion Council e il sostegno per l’economia circolare della Ellen MacArthur Foundation. Inizialmente il centro fornirà riparazioni ai clienti di Patagonia nel Regno Unito, ma nei prossimi 12 mesi altri tre marchi si uniranno alla struttura e ci sarà spazio per molti altri partner.
 
La partnership contribuisce all’impegno di lunga data di Patagonia per un consumo responsabile. Fondata sull’etica di creare prodotti di qualità e durevoli, negli ultimi 12 anni Patagonia ha educato i clienti a comprendere perché e come sia possibile prolungare la vita dei propri capi d’abbigliamento attraverso il programma Worn Wear. Poi, attraverso il Repair Portal, lanciato recentemente, il marchio offre riparazioni gratuite.
 
Tutti i soggetti coinvolti nell’iniziativa dello United Repair Centre London sono convinti che abbandonare l’usa e getta e integrare la circolarità nei modelli di business sia una delle strade per quella transizione ecologica che ormai ci riguarda tutti, nessuno escluso.

Un consorzio per l’EPR del tessile

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L’uscita, lo scorso marzo, della Strategia Europea per il Tessile Sostenibile e Circolare, ha messo in moto tutta una serie di iniziative volte a facilitare e/o assistere i produttori del settore nella non facile sfida di questa transizione ecologica.

Una particolare attenzione viene data alla Responsabilità Estesa del Produttore (EPR – Extended producer responsibility) che indica la pratica di politica ambientale per cui il produttore si rende responsabile anche del fine vita del prodotto.

Ecco allora tra le iniziative, la nascita di Erion Textiles, il consorzio del sistema Erion dedicato proprio alla EPR applicata al settore del tessile. Il gruppo Erion è un sistema multi-consortile no profit per la gestione di differenti tipologie di rifiuti, tra cui quelli tessili ed Erion textiles nasce con il proposito di favorire il riutilizzo, il riciclo e la raccolta differenziata dei rifiuti tessili post-consumo, che attualmente non supera i 2,6 kg per abitante (leggermente aumentata rispetto al 2020, con 2,4 kg).

Il nuovo consorzio è stato voluto da alcuni tra i principali player del settore (rappresentato dai soci fondatori Amazon, Artsana, Essenza, Miroglio Fashion, Rimoda Lab e Save The Duck) che hanno deciso di unire le forze per dar vita a un sistema collettivo al servizio dei produttori.

Ogni produttore, per adempiere alla Responsabilità Estesa, dovrà infatti aderire a un consorzio per il finanziamento e l’organizzazione di un sistema di raccolta, recupero e riciclo dei rifiuti tessili post-consumo ed Erion Textiles si pone come guida e supporto, sia per affrontare i futuri obblighi normativi per il settore del tessile a livello di compliance e gestione del rifiuto, sia per offrire competenze e servizi specifici costruiti su misura per l’economia circolare.

L’invito di Raffaele Guzzon, Presidente di Erion Textiles, è quello che le aziende del settore entrino a far parte del consorzio “mediante una collaborazione che possa essere equilibrata e non guidata da interessi particolari, ma impegnata unicamente nel raggiungimento di benefici ambientali, economici e sociali per promuovere un futuro sostenibile”.

Secondo l’edizione 2022 del Rapporto Rifiuti Urbani di Ispra, la raccolta differenziata complessiva relativa al settore del tessile nel 2021 è stata pari a 154.000 tonnellate, con una maggiore incidenza delle regioni del Nord Italia dove si concentra il 50% della differenziata, seguite da quelle del Sud dove complessivamente sono state raccolte in maniera differenziata oltre 42.000 tonnellate di prodotti tessili, e del Centro (poco meno di 35.000 tonnellate complessive). Tra le regioni con livelli più elevati di raccolta differenziata dei tessili, Lombardia (circa 27.000 tonnellate), Campania (15mila tonnellate) e Veneto (14mila tonnellate). 

PS: sul sito di Erion Textiles c’è la possibilità, per le aziende, di fare il test sul proprio grado di impatto ambientale, scoprite i vostri limiti!

Gucci e Oviesse, top brand di trasparenza

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È uscito di recente il Fashion Transparency Index 2023, il report di Fashion Revolution che ogni anno fa il punto sul livello di trasparenza dei brand internazionali, per la precisione 250 marchi, riguardo a tutti gli aspetti della sostenibilità, dagli impatti ambientali a quelli sui diritti dei lavoratori.

L’anno scorso avevamo constatato come l’impegno dei brand fosse troppo lento, con solo il 24% impegnato nel fornire informazioni sulle proprie catene di fornitura e sulle politiche aziendali.

Quest’anno le cose non sono cambiate di molto; quel dato lì è salito solo di 2 punti arrivando al 26% e dei 250 marchi esaminati, ben 70 hanno un punteggio che oscilla tra lo 0 e il 10% ma di buono c’è che i brand del lusso hanno cominciato a collaborare, rendendo pubblici gli elenchi dei propri fornitori. E proprio uno di loro, uno dei più importanti, compare per la prima volta tra quelli con il punteggio più alto, l’80%: Gucci.

La sfilata p/e 2023 di Gucci, l’ultima di Alessandro Michele – copyright: Matteo Canestraro

Già in tempi non sospetti avevamo parlato di Gucci come di una fashion corporation impegnata nella sostenibilità e, complice il gruppo Kering di cui fa parte, la strada verso una sempre maggiore trasparenza è stata ampiamente tracciata.

Per seguire il percorso virtuoso della maison, da qualche anno c’è il portale Gucci Equilibrium (che avevamo già segnalato, sempre in tempi non sospetti) dedicato a spiegare e fornire aggiornamenti sulle sue best practice sociali e ambientali e dove trovate pubblicato anche il Gucci Equilibrium Impact Report 2022.

Un altro marchio che compare in cima alla classifica con l’83% del punteggio (rispetto al 78% del 2022) è Oviesse, confermando le buone intenzioni dell’anno scorso, in cui già risultava ai primi posti. È un’ottima notizia per diversi motivi: perché è un marchio italiano e su 250 internazionali esaminati, dà il buon esempio, perché è un brand storico, nato a Padova nel ’72 e che è arrivato a oggi con non poche traversie, dimostrando che è con il cambiamento positivo che si ottengono dei risultati. E poi perché è una firma popolare, un grande magazzino low cost che sta salendo di gamma, aprendosi a collaborazioni con altri creativi ma mantenendo al contempo lo stile italiano con un certo gusto. E, appunto, impegnandosi su tutti i fronti della sostenibilità.

Uno store di Oviesse a Milano

Il suo virtuoso 83% di quest’anno lo testimonia con miglioramenti in quattro delle cinque aree analizzate dal Fashion Transparency Index: Policy and Commitments, Governance, Know, Show and Fix, Spotlight Issues. Le prime due riguardano l’accessibilità delle policy aziendali in materia di sostenibilità e la descrizione dei processi aziendali a supporto, le altre due valutano la chiarezza nel raccontare le azioni attivate in risposta ai fattori di rischio ambientali e sociali.

Quest’anno il gruppo ha pubblicato, tra gli altri, i dati relativi alle emissioni di CO2 e all’utilizzo di acqua dei fornitori, ha dichiarato gli obiettivi destinati a supportare sistemi di rappresentanza dei lavoratori e ha condiviso i piani di intervento con cui ha affrontato alcune criticità nella catena di fornitura.

Sulla qualità dei capi, io stessa ho constatato un costante miglioramento; certo, per mantenere i prezzi ‘bassi’, lo stesso CEO Stefano Beraldo ha ammesso di optare per materiali meno costosi e margini più bassi ma è stata anche ridotta la quantità dei capi prodotti all’ultimo, con un’attenzione maggiore alla qualità.

Nel negozio fisico, quando capito, tocco sempre i tessuti, leggo le etichette e, se acquisto un capo, in quello online ho la possibilità di avere maggiori informazioni in proposito, tra cui come averne cura, l’eco valore, ovvero il consumo d’acqua, le emissioni di CO2 e la circolarità, la trasparenza.

È vero, non è tutto ma è tanto, considerando che ci sono molti brand che fanno pagare a peso d’oro i propri prodotti e/o si tacciano di virtuosismi vari e poi di concreto non fanno nulla, oltre ad avere catene di fornitura intricate come ragnatele.

Per leggervi per intero il Fashion Transparency Index, andate a questo link.

FREITAG, presto il primo zaino circolare

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Non nascondo di aver sempre avuto un debole per FREITAG, il marchio svizzero di borse e accessori realizzati con i teloni dei camion (ma ormai ha spaziato anche nell’abbigliamento), anche perché è stato un pioniere nella pratica del riciclo e sempre molto attento a tutti gli aspetti che rendono un brand sostenibile.

Oggi FREITAG fa un altro passo avanti, mandando in produzione il primo zaino realizzato senza gli iconici teloni, in un’ottica circolare che prenda in considerazione il fine vita del prodotto e la sua re-immissione in circolo.

Il primo passo è stato trovare un unico materiale per poter realizzare l’intero prodotto e la scelta, dopo un’approfondita ricerca e analisi dei materiali, è caduta sulla poliammide 6 (PA6), un nylon molto versatile, resistente e facile da riciclare.

Il materiale pronto per lo zaino Mono – credits t-space studio

Facile sotto certi aspetti, certo ma sfidante pensando al tipo di prodotti da realizzare, cioè non semplici shopper ma borse strutturate, funzionali, longeve e idrorepellenti: “Non ci aspettavamo che la riduzione dei materiali avrebbe reso il progetto così complesso, soprattutto in termini di approvvigionamento” ha ammesso Anna Blattert, Circular Technologist di Freitag.

E allora, siccome c’erano certe esigenze da rispettare, FREITAG ha preso direttamente in mano lo sviluppo del materiale insieme a un partner dell’industria tessile taiwanese, con cui ha lavorato per realizzare un tessuto laminato a tre strati con fodera, membrana idrorepellente e rivestimento esterno, tutto in PA6.

Dopo due anni abbondanti e innumerevoli cicli di prova, in cui si è inserita anche la facoltà di ingegneria dell’Università di scienze applicate di Albstadt-Sigmaringen, in Germania, il tessuto FREITAG in PA6 ha alla fine superato i test di longevità e impermeabilità.

È nato così lo zaino Mono, creato in collaborazione con il giovane designer inglese Jeffrey Siu, che a fine vita potrà essere riciclato nella sua interezza, senza doverlo scomporre; benché le componenti più piccole come i punti adesivi della laminazione e l’inchiostro dell’etichetta interna non siano in PA6 e al tiretto della cerniera siano state aggiunte delle fibre di vetro per renderlo più resistente, la percentuale di questi materiali è comunque talmente minima da consentire persino il riciclo meccanico.

Il processo circolare di creazione dello zaino Mono – credits Data-Orbit

I prototipi completi sono stati prima frantumati in un granulatore presso il KATZ Aarau, il centro svizzero di tecnologia delle materie plastiche e poi estrusi in granulato PA6 di alta qualità; i test hanno confermato che gli zaini FREITAG Mono sono completamente riciclabili.

È partita quindi la produzione dei primi 1500 esemplari del nuovissimo zaino circolare, che sarà realizzato con PA6 vergine, ossia non riciclato e sarà probabilmente lanciato nella primavera del 2024, insieme a un concept di riparazione e a un processo di restituzione.

Addio per sempre ai teloni? Chissà …

Le immagini sono courtesy FREITAG

Poliestere, la sfida del riciclo ‘fibre to fibre’

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Non so da quant’è che non compro più un capo in poliestere, manco in mischia. Però il poliestere esiste ed è il secondo tessuto più utilizzato dopo il cotone e quando uno scarto tessile in poliestere finisce in discarica, ci mette dai 20 ai 200 anni a decomporsi.

E allora, trovare un modo per recuperare questi scarti, è cosa buona e giusta.

Un progetto di ricerca e sviluppo, costruito per gradi, che dimostra la fattibilità del riciclo ‘fibre to fibre’ del poliestere, l’hanno ideato RadiciGroup e Sportstex, azienda specializzata nella produzione di capi sportivi, per recuperare gli scarti tessili, come le divise da calcio, da pallavolo e di altre discipline.

Alle due aziende si è aggiunta Pure Loop, specializzata nei macchinari per il recupero, con l’obiettivo di individuare la migliore tecnologia disponibile e rendere possibile l’ottenimento di una nuova fibra tessile.

La t-shirt di poliestere riciclato by Shimano

Tra le varie sperimentazioni per arrivare al risultato, quella di una tecnica di recupero mista, dosando percentuali variabili di granuli provenienti dal recupero di bottiglie (pratica già consolidata in RadiciGroup) con granuli in poliestere provenienti dal recupero di tessuti. Quest’esperienza ha poi consentito di mettere a punto i vari processi, arrivando a ottenere un filato proveniente al 100% dal recupero di scarti tessili.

Un sistema virtuoso di circolarità che, una volta industrializzato, permetterà di produrre capi in poliestere riciclato che, a fine vita, potranno nuovamente essere recuperati. A sposare per prima questo progetto è stata Shimano, azienda che ha firmato le prime magliette frutto di questa collaborazione di filiera: una t- shirt (foto di copertina) realizzata con questo processo sarà in mostra per la prima volta a ITMA, la più grande fiera internazionale della tecnologia tessile e dell’abbigliamento, in programma a Milano da oggi fino al 14 giugno.

Sì, è vero, il poliestere fa comunque male all’ambiente, lo sappiamo ma tanto la sua produzione non si fermerà domani, non possiamo fare questo tipo di magia, quindi tanto vale trovare dei modi meno impattanti per conviverci e soprattutto per non produrne ex novo. E in questo caso, w la ricerca e la tecnologia.

Le immagini sono courtesy RadiciGroup

MMR, il manifesto italiano per una moda responsabile

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Anche la decima edizione di Fashion Revolution è giunta al termine; anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo cercato di diffondere e valorizzare un’idea di moda che rispetti i punti del Manifesto, se date un’occhiata al profilo Instagram del blog, trovate le nostre iniziative.

Ma parlando di Manifesto, proprio nei giorni della Fashion Revolution, ne è nato un altro, simbolicamente fondato a dieci anni da Rana Plaza; si tratta del Movimento Moda Responsabile (MMR), un network di brand, aziende, produttori, associazioni e professionisti uniti per promuovere una moda più socialmente ed ecologicamente responsabile in Italia attraverso la creazione di consapevolezza, trasparenza e senso di responsabilità.

Diverse sono le voci che fanno parte di questo manifesto e alcune sono passate anche qui a eco-à-porter: Rifò, Francesca Tonelli con And Circular, Vesti la Natura, Mending for Good e così via.

Ma cosa si propone il Movimento Moda Responsabile? E a chi è rivolto? Diciamo che parla a tutti, aziende, istituzioni e consumatori, perché ognuno ha un ruolo attivo per quanto riguarda buone pratiche, trasparenza e senso di responsabilità.

Si basa su quattro valori/pilastri che sono:

  • ricerca della qualità piuttosto che della quantità, con tutto ciò che la qualità comporta, dai primi step della produzione al fine vita del prodotto (vi invito a leggere tutti i punti del manifesto, che trovate a questo link e che potete anche scaricare).
  • creazione di valore sociale ovvero un valore che possa estendersi oltre la propria struttura e coinvolga la comunità, il territorio, noi ne abbiamo parlato varie volte, di realtà che hanno saputo creare collaborazioni e risultati oltre se stesse e i propri profitti.
  • rispetto per l’ambiente in tutte le fasi produttive, perché i capi prodotti sono interconnessi con l’ambiente e le sue risorse.
  • etica e responsabilità sociale ovvero rispetto dei diritti umani in tutta la catena produttiva e distributiva.

Il Movimento ha poi redatto delle azioni concrete, impegnandosi a educare e sensibilizzare, collaborare e condividere, far sentire la propria voce alle istituzioni attraverso campagne divulgative, incontri periodici, raccolte firme, ecc.

Naturalmente anche voi potete fare la vostra parte, ad esempio scaricando e condividendo il materiale informativo che trovate sul sito e continuando a restare aggiornati sulle attività di questo nascente Movimento Moda Responsabile.

Fashion Deserves the World #2

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Giunge alla sua seconda edizione ‘Fashion Deserves the Word’, il progetto lanciato il 20 giugno 2021 in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato e sviluppato in collaborazione con l’Agenzia ONU per i Rifugiati (UNHCR), la start-up Mygrants e la Camera della Moda Italiana (CNMI).

Studiato per facilitare l’ingresso di rifugiati e migranti nel mondo della moda, ‘Fashion Deserves the World’ offre la possibilità a 15 giovani di accedere gratuitamente a una serie di servizi di formazione tecnica e di intraprendere un vero e proprio percorso lavorativo nel settore.

Presentato a Milano a dicembre scorso durante una conferenza stampa con la partecipazione del presidente di CNMI Carlo Capasa, la seconda edizione del progetto si concentrerà sull’artigianalità e fornirà ai partecipanti le competenze necessarie per ricoprire in aziende di moda alcuni ruoli particolarmente richiesti, come il sarto, il modellista e il ricamatore.

Tra i requisiti per partecipare al progetto, la cittadinanza di paesi terzi titolari del permesso di soggiorno CE per i soggiornanti di lungo periodo o che siano richiedenti e/o titolari di uno status di protezione (rifugiato, protezione sussidiaria, protezione temporanea, protezione speciale, permessi speciali rilasciati per cure mediche, calamità, atti di particolare valore civile, protezione sociale, vittime di violenza domestica, sfruttamento lavorativo) o titolari di un permesso di soggiorno in corso di validità.

Le domande ricevute da Mygrants e i risultati della pre-selezione vengono condivisi con Camera Nazionale della Moda Italiana, con la creazione di una shortlist proposta da Mygrants e UNHCR basata sull’effettiva aderenza ai requisiti generali ma la scelta finale delle candidature rimane esclusiva competenza di CNMI.

I 15 finalisti parteciperanno nel mese di marzo/aprile 2023 a una serie di incontri per approfondire argomenti che vanno dalla conoscenza dei materiali e le tecniche di produzione fino a workshop pratici, e una volta terminata la formazione, CNMI, UNHCR e Mygrants supporteranno i profili nel processo di placement, segnalandoli alle aziende italiane associate a Camera Nazionale della Moda Italiana. 

Per chi fosse interessato a partecipare a ‘Fashion Deserves the World’, c’è tempo fino al 31 gennaio prossimo per inviare le candidature, ecco il link all’application form e nella stessa pagina si trovano anche il regolamento e altre informazioni utili.

La European Fashion Alliance al suo primo summit

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Scusate il ritardo con cui inauguro il 2023 ma sono stata fuori ripromettendomi di prendere una pausa, che altrimenti non stacco mai e così è stato.

Cercando un argomento con cui cominciare l’anno, oltre a ricordarvi che dal 1° gennaio è entrato in vigore l’obbligo di etichettatura ecologica degli imballaggi, ho pensato di aggiornarvi sull’attività della European Fashion Alliance (EFA) che, come organo ‘politico’ transnazionale del sistema moda, vuole mandare segnali di concreto attivismo parallelamente alle decisioni prese dalle istituzioni europee in materia.

Questo network della moda, che riunisce 25 istituzioni nazionali e regionali di 18 Paesi europei del settore, tra cui la nostra Camera della Moda, ha organizzato un primo summit (parliamo degli ultimi mesi del 2022) per discutere e concordare un pacchetto di misure in grado di sostenere e promuovere il processo di trasformazione (a me piacerebbe chiamarla ‘transizione’) dell’industria della moda in Europa. 

Un dibattito che ha avuto come tema principale il ‘Green Deal’ lanciato dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen nel 2019 per portare le emissioni di gas serra a zero entro il 2050 e a cui anche l’industria della moda deve urgentemente contribuire, come responsabile del proprio pesante impatto ambientale.

A tal fine sono stati definiti quattro obiettivi per il periodo 2023-2027 basati su: sostenibilità, educazione, policy e innovazione.

  1. Innanzitutto definire un codice di condotta etico, sociale e sostenibile per i membri dell’EFA, che si estenda a tutta l’industria della moda;
  2. il ‘Green Deal’ della moda europea deve essere fondato su un ecosistema della moda circolare e sociale e basarsi su dati e su un sistema di misurazione condivisi;
  3. necessaria poi la creazione e l’applicazione di pratiche di formazione sostenibile, tecnologica e di responsabilità sociale e culturale per i principali stakeholder dell’EFA;
  4. infine l’empowerment delle nuove generazioni come forze trainanti di valore nella transizione digitale, circolare e sociale dell’industria della moda.

La nostra missione è educare i consumatori e i marchi di moda su cosa significhi essere sostenibili e dare grande valore alla creatività, sottolineando il nostro apprezzamento per tutte le persone che stanno dietro al sistema, ha commentato Carlo Capasa, Presidente della Camera Nazionale della Moda Italiana, e uno dei ruoli principali dell’EFA è quello di coinvolgere i nostri associati nello storytelling di ciò che sta dietro ai loro prodotti e di rappresentare una nuova idea di moda del futuro. Collaborando nell’EFA, possiamo mostrare ad altri settori cosa si può ottenere lavorando tutti insieme”.

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