A volte è bello anche confrontarsi con le colleghe che si occupano di moda sostenibile; nella nostra ‘Intervista del mese’, come giornalista, abbiamo già avuto Clare Press, appassionata attivista per la moda etica, ex editorialista responsabile del settore ‘sostenibilità’ di VOGUE Australia e autrice del podcast ‘Wardrobe Crisis’.

Stavolta è il turno di Silvia Gambi, esperta di moda sostenibile, tanto che il suo sito e podcast si chiamano ‘Solo Moda Sostenibile‘; Silvia ha una profonda conoscenza del distretto pratese, di cui abbiamo parlato spesso per la rigenerazione dei tessuti, ospitando ad esempio Niccolò Cipriani di Rifò ed è soprattutto su questa realtà che si concentra la nostra chiacchierata, importante per capire quanto un territorio, grazie a una tradizione secolare ma anche alla volontà di rinnovarsi e cambiare, può diventare un esempio virtuoso.

Silvia Gambi

Silvia, cos’è che ti ha spinto a scrivere di sostenibilità? Quanto ha influito il tuo ‘background’ pratese?

Io mi occupo di tessile e comunicazione del settore da oltre 15 anni, con ruoli diversi. A Prato si parla di sostenibilità da molti anni, perché questa è la patria del riciclo tessile. Quando nel mondo si è iniziato a parlare di green economy, nel distretto c’è stato subito interesse e le aziende hanno intrapreso percorsi virtuosi più strutturati. Il mio progetto ‘Solo Moda Sostenibile è una piattaforma che si compone di strumenti diversi per approfondire i temi legati alla moda sostenibile: il podcast, il magazine, la newsletter settimanale. E’ un lavoro che si rivolge ad addetti ai lavori, a volte anche molto tecnico, ma le aziende hanno bisogno di tenersi aggiornate in questo mondo in continua evoluzione.

Nella tua bio ti definisci “una che lavora sul campo” e che sei “più interessata alla parte produttiva che allo stile”. Ci racconti un po’ la tua esperienza?

Io ho una esperienza prevalentemente tecnica e rivolta al tessile. Conosco bene la catena di fornitura, le certificazioni, i capitolati. La mia esperienza nasce dalla collaborazione quotidiana con le aziende, che negli anni ho supportato in progetti, fiere, piani di comunicazione.

Come hai visto cambiare il distretto tessile più grande d’Europa negli anni e soprattutto da quando la sostenibilità è passata da optional a diktat?

Il distretto è cresciuto molto a livello di consapevolezza delle proprie potenzialità negli ultimi anni: a Prato si ricicla da decenni, ma fino a pochi anni fa non c’era la percezione da parte delle imprese che questo fosse un atteggiamento virtuoso. Adesso invece il mondo della moda è molto interessato a quello che producono le aziende all’interno del distretto, che quindi stanno riorganizzando i processi e si stanno strutturando per rispondere alle esigenze del mercato. Prato ha un grandissimo acquedotto industriale per il riciclo delle acque di lavorazione e ce l’ha da decenni. E’ come se questo territorio la circolarità ce l’avesse nel sangue.

E nello specifico quali passi hai visto fare alle aziende per diventare più etiche?

E’ un percorso che sta portando avanti l’intero distretto, perché il distretto di Prato è formato da una rete di competenze e un’azienda da sola non può fare la differenza, ma ha bisogno che anche la sua catena di fornitura si muova nella stessa direzione. Così il percorso di certificazione, la ricerca di processi e soluzioni meno inquinanti, la misurazione dell’impatto ambientale della produzione, sono aspetti che vedono tutti impegnati.

Recentemente mi è capitato di parlare con un imprenditore pratese che, alla mia domanda su quali fossero gli ostacoli che impediscono di ‘esportare’ in altri territori il modello virtuoso pratese della rigenerazione dei tessuti, ha risposto “i limiti legislativi” in quanto i vecchi indumenti sono considerati ancora come rifiuti e quindi pesantemente tassati. Pensi che sia soprattutto questo oppure che sia anche un fatto di mentalità?

  • Questo lavoro si fa a Prato da oltre un secolo, qui ci sono competenze e strutture difficili da replicare in altri territori. Il riciclo che viene fatto a Prato si basa innanzitutto sulla conoscenza dei materiali delle persone che lavorano lungo la filiera. Questa competenza diffusa e consolidata non si può esportare.

Riguardo ai limiti legislativi, diciamo che la legislazione attuale non agevola l’economia circolare dei tessili: le aziende a Prato stanno attendendo una modifica legislativa, la normativa ‘end of waste’, che definisca una volta per tutta quando un abito usato cessa di essere un rifiuto e diventa una risorsa. L’oscurità di questo confine oggi rende a volte pericoloso trattare questi materiali. Come ben sai, per i rifiuti si applica una normativa diversa e quindi fa una grande differenza lavorare un abito usato qualificato come rifiuto o come materia prima seconda. E poi c’è anche un problema di tassazione legato all’applicazione dell’Iva: i rifiuti tessili sono assoggettati all’Iva e anche questo ha poco senso, perché già il prodotto quando è stato immesso nel mercato la prima volta è stato tassato, questo fa pensare a una doppia tassazione che certo non agevola il mercato.

Come dev’essere un’economia, secondo te, per essere davvero circolare?

Secondo me il tema della circolarità deve ancora essere affrontato con serietà, il mondo del fashion si è trovato totalmente impreparato di fronte a questa nuova sfida. Non dobbiamo pensare che usare una materia prima riciclata sia sufficiente per parlare di circolarità. E’ necessario pensare a un nuovo modo di produrre, con l’eco-design. E poi deve esserci una ricerca più decisa che vada nella direzione di individuare nuove tecnologie che permettano di recuperare e riciclare i materiali in maniera meno impattante. Penso che il tessile abbia di fronte a sé delle sfide interessanti che lo aspettano nei prossimi anni e che lo renderanno un settore nuovamente molto attrattivo, anche per i giovani.

Grazie Silvia per il contributo.

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