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Il fuoco delle fabbriche indiane brucia le nostre coscienze

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Il fuoco delle fabbriche indiane brucia le nostre coscienze

L’8 dicembre scorso, in un’area della vecchia Delhi, India, chiamata Anaj Mandi, un edificio commerciale adibito a fabbrica tessile è andato a fuoco uccidendo 43 persone e ferendone almeno altre 50.

I vigili del fuoco hanno raggiunto la zona in pochi minuti, ma non sono riusciti a entrare nell’edificio per l’intensità dell’incendio e per la presenza di blocchi nei vari punti di ingresso. Per rimuovere le griglie di ferro che serravano l’edificio come una gabbia, hanno dovuto usare dei tronchesi a gas e una volta dentro, tra fumo, fiamme e crolli, la scena è stata orribile.

Gli operai sono morti asfissiati nel sonno, perché il loro posto di lavoro era anche il loro dormitorio; troppo lontane le case per farvi rientro ogni giorno e comunque i ritmi di lavoro erano così serrati che l’attività si protraeva ben oltre l’orario stabilito.

Causa probabile dell’incendio, un corto circuito. Sicuramente mancavano le necessarie autorizzazioni e gli impianti non erano a norma, un’attività illegale insomma, praticata in un quartiere che è “un groviglio di stradine e fili elettrici lasciati scoperti, con laboratori, botteghe e case dove le famiglie vivono stipate”. E la corruzione dilaga.

Tra i 43 morti anche un tredicenne, conferma che lo sfruttamento minorile è un’altra delle piaghe che affligge queste zone dimenticate del mondo, dove l’industria della moda occidentale basa la propria produzione schiacciando i diritti dei lavoratori, già oppressi dalla povertà.

Questa di Anaj Mandi è solo l’ultima delle tante tragedie legate alla produzione di abbigliamento e accessori nelle fabbriche indiane; la più eclatante è stata quella di Rana Plaza del 2013, che ha risvegliato le coscienze del mondo della moda portando alla creazione del movimento globale Fashion Revolution ma gli incidenti sono sistematici, gli incendi frequenti, tanto che secondo dati forniti proprio da Fashion Revolution, il 12% degli operai impiegati in fabbriche tessili indiane ha assistito almeno a un incendio nel proprio luogo di lavoro.

Le vittime di questo ultimo incendio producevano borse e zaini per la scuola, ma per quella dei bambini e dei ragazzini occidentali; il tredicenne che ha perso la vita là dentro avrebbe dovuto andare a scuola.

Cercando di evitare ogni retorica, e qui non è la prima volta che lo diciamo, ogni volta che acquistiamo qualcosa a poco prezzo sulla cui etichetta leggiamo ‘made in Bangladesh’ ma anche ‘made in Vietnam’ o ‘made in China’ dovremmo pensare che al 90% quell’abito, quella borsa, quello zaino per la scuola sono stati fatti da qualcuno che probabilmente non vede quasi mai la luce del giorno e non respira aria che non sia quella malsana di una stanza in cui lavorano altre decine se non centinaia di persone. Qualcuno che non torna mai a casa dalla sua famiglia, che viene sottopagato, che viene magari picchiato se alza la voce per difendere i propri diritti.

Se fingiamo di non sapere e acquistiamo indiscriminatamente, siamo complici di questa costante tragica perdita di vite umane. “Le nostre scelte non possono, in termini lineari, forzare direttamente le persone alla povertà e all’orribile scelta di lavorare in condizioni di schiavitù o quasi schiavitù, ma se non sosteniamo un sistema più giusto, siamo colpevoli. Noi, i pochi fortunati, che stiamo acquistando anziché fabbricare i capi, siamo beneficiari di un sistema di moda dell’ingiustizia che sta alimentando questi disastri”.

Credits foto cover: Fashion Revolution

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