Se l’abito è architettura perché deve rappresentarci ma insieme coprirci, allora l’architetto può essere visto come un designer. Ma se quell’architetto è Cristiano Toraldo di Francia, allora il progetto, che sia un edificio o un abito, si forma e acquista valore o, addirittura, esiste, dal momento in cui esso viene abitato. Non è un caso che Toraldo di Francia abbia sempre avuto un debole per Roland Barthes che infatti parlava del vestito come di “ciò attraverso cui il corpo diviene portatore di segni”, portando avanti la creatività sperimentale del Superstudio, da lui stesso fondato nel 1966, nel ripensare il design e l’architettura in modo radicale.
Architetto radicale, dunque, Cristiano Toraldo di Francia esce in questi giorni con un libro edito da Quodlibet Studio Design, che è anche una sorta di autobiografia ricca di immagini legate sì all’esperienza del Superstudio ma soprattutto a ‘Ri-vestire’, titolo del testo (sottotitolato ‘Vestire il pianeta/vestire un corpo: dalla Supersuperficie al Librabito’) e nome del corso-laboratorio che l’architetto tiene all’interno del corso di laurea in Disegno Industriale e Ambientale della Scuola di Architettura e Disegno Industriale dell’Università di Camerino (Unicam), nelle Marche (che è anche la regione di eco-à-porter!). E ‘Ri-vestire’ è proprio il motivo per cui oggi occupa, anzi, abita, la pagina del blog.
Dal 2011 Toraldo di Francia si interessa al sistema della moda e a come esso rientri in pieno nell’economia dei consumi e ‘nel ciclo del continuo cambiamento dei modelli’ e per un radicale come lui il passaggio al cercare e sperimentare strategie (critiche) legate al sistema produzione-consumo è spontaneo. All’interno di ‘Ri-vestire’ quindi, insieme ai suoi studenti, mette in pratica destrutturazioni, contaminazioni, riciclo e riuso, ‘tenendo presente l’importanza nell’era del virtuale del recupero del ‘fare bene’ manuale’, favorito in questo caso dal tipico know-how marchigiano, ricco di una tradizione che dall’attività delle filande arriva fino all’artigianato dell’abito.
L’abito, come gli oggetti ri-pensati ai tempi del Superstudio, svela il proprio senso nel momento in cui viene utilizzato, indossato, diventa cioè uno ‘spazio abitato’ e i tessuti utilizzati per crearlo diventano ‘materiale di base, punto di partenza dell’idea progettuale’. Il corso ‘Ri-vestire’ dà così il via a una serie di esercizi progettuali-creativi che si muovono in più territori, dalle arti all’architettura, dal design alla messa in scena di vere e proprie performance ed eventi con al centro il corpo umano e il suo comfort. La sostenibilità dei materiali impiegati (dal riciclo allo smaltimento), la decostruzione dell’abito, la libertà di interpretazione da parte di chi lo indossa e il fai da te sono alcune delle regole della sperimentazione.
Ecco nascere quindi tutta una serie di storie legate alla costruzione-decostruzione dell’abito sul corpo di chi lo indossa, che a loro volta fanno scaturire passioni, desideri, emozioni. Come quelli legati a ‘Speed Former’, relazione di tesi di Chiara Tripodi, che ha realizzato uno zaino/gilet con ritagli di tessuti di scarto provenienti da Trame, una piccola azienda artigianale di Corropoli, comune del teramano, che trasforma e lavora i tessuti attraverso vari tipi di tecniche tra cui la trapuntatura, come quella con l’ovatta. Chiara ha realizzato il suo prodotto partendo da un cartamodello per creare la sagoma dello zaino/gilet, poi ha unito a patchwork i tessuti a sua disposizione servendosi di tre cerniere per chiudere lo zaino e la parte anteriore del gilet e di alcuni rivetti per una parte del collo. Il prodotto è scomponibile in due moduli trasformabili: uno zaino ed un cappuccio che diventano rispettivamente un gilet e una borsa a sacco.
‘Abito quotidiano’ vuole mettere in primo piano quella capacità manuale estromessa dal digitale, utilizzando un materiale solitamente estraneo al mondo tessile: la carta di giornale, in particolare dei quotidiani. ‘La non applicabilità della meccanica della cucitura ma solo dell’uso di nastri di carta gommati diventa esercizio per piegature e intrecci complessi, spesso usati in vere e proprie sculture indossabili, realizzate con il supporto di fili metallici’. Qui Toraldo di Francia ricorda che in generale il cartamodello viene sempre realizzato con la carta velina e che anche nel suo mestiere di architetto ha sempre privilegiato questo tipo di carta come supporto di schizzi di dettagli o di design di grandi dimensioni. Inoltre, in fatto di recupero, la carta è frutto di una lavorazione che utilizza il riciclo degli stracci di tessuti di lino e canapa.
‘Tre giacche’ nasce da un dono di 140 giacche un po’ datate ma con stoffe attuali; consegnate a ogni studente tre giacche tre, ognuno ha il compito di smontarle e riassemblarle ottenendo un abito completo; ecco che c’è chi rovescia la fodera all’esterno e chi porta le maniche verso le gambe creando dei pantaloni. E in questo caso è impossibile non pensare alle destrutturazioni firmate Martin Margiela, ora diventato Maison Margiela.
Ancora riciclo, questa volta per la realizzazione di un ‘Soprabito’; qui Toraldo di Francia fa un piacevole flashback sulla propria infanzia quando nel 1952, seguendo il padre che va a insegnare all’Eastman Kodak University nella città di Rochester, Stati Uniti, arriva a scuola con il suo cappotto ricavato da un altro appartenuto al nonno e si accorge che i compagni portano giacche a vento e berretti col pelo. A ogni Paese il proprio stile. Comunque tornando al cappotto, è interessante la riflessione sul fatto che è, in fondo, una striscia (abbondante) di tessuto che ‘annulla la divisione verticale del corpo sopra e sotto il bacino’ mettendo in secondo piano ‘la divisione tipologica, tanto funzionale al mercato, tra abiti del busto e abiti delle gambe’. L’esercizio progettuale del ‘Soprabito’ entra nello specifico della costruzione dell’abito, con il riciclo di fine pezza forniti da tre diverse aziende, spesso modellati direttamente sul corpo. E torna il discorso sull’abito che si fa portatore di significati plasmando il corpo che lo indossa e mettendolo in discussione alterandone simmetrie e proporzioni come fanno i designer giapponesi che danno all’abbigliamento un valore meta-stilistico, di maschera, di fuga dalla ‘perfezione patinata’.
Gli esercizi progettuali di Toraldo di Francia e dei suoi studenti non possono che culminare con il ‘Librabito’, costruito e illustrato partendo da testi di letteratura, filosofia, architettura donati dalla stessa casa editrice Quodlibet e applicati a una tuta di Tyvek, tessuto non tessuto simile alla carta facilmente tagliabile ma difficilmente strappabile, ‘efficace protezione dalle polveri sottili – scrive Toraldo di Francia – ma non dai pensieri’.
Radicale nell’architettura, Cristiano Toraldo di Francia si fa radicale anche nel fashion design, scardinando quel principio di omologazione a un unico grande mercato cui ormai, dagli anni ’60 ad oggi (e oggi più di allora), sembra asservirsi il mondo. E lo fa ricorrendo a quei principi del riciclo, del riuso, del vintage, della manualità creativa che diventano strumenti critici e, sì, a questo punto si può dire, rivoluzionari. Per il pianeta, l’ambiente, la moda e per noi stessi.