‘The True Cost’, il vero costo della fast fashion

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Shima Akhter, operaia tessile, con la figlia Nadia - courtesy of The True Cost movie

“Questo film parla di vestiti. Dei vestiti che indossiamo, delle persone che li realizzano e dell’impatto sul nostro pianeta. E’ una storia di avidità e paura, potere e povertà. E’ complessa perché coinvolge tutto il mondo ma è anche semplice, mostra semplicemente quanto siamo legati a tante mani e a tanti cuori dietro ai nostri vestiti”. Si apre con queste parole ‘The True Cost’, il documentario di Andrew Morgan che indaga e mostra il costo reale dei tanti capi di abbigliamento che stanno appesi nel nostro guardaroba e delle tante scarpe che collezioniamo nelle nostre scarpiere e che spesso e volentieri accumuliamo fino alla nausea senza una vera utilità, visto che poi finiamo per mettere sempre le stesse cose, quelle con cui ci sentiamo meglio.

‘The True Cost’ locandina – courtesy of truecostmovie.com

‘The True Cost’ è uscito nel 2015 ma mi sembra una buona idea ritirarlo fuori e riparlarne, non solo perché è una pellicola quanto mai attuale ma anche e soprattutto perché in questa settimana della Fashion Revolution ricorre il quinto anniversario della tragedia di Rana Plaza e il documentario è un chiaro atto di accusa contro le cause che si nascondono dietro a quel crollo in cui morirono 1138 persone, tutti operai tessili sfruttati dall’industria della moda occidentale, in particolare della cosiddetta ‘fast fashion’.

Guardare ‘The True Cost’ è un bel pugno nello stomaco perché ci sbatte in faccia la nostra avidità di consumatori compulsivi e continuamente insoddisfatti, il nostro far parte di una società basata sul profitto e sull’”interesse aziendale”, la nostra incontrollabile sete di possesso di beni materiali a poco prezzo, che acquistiamo solo perché rappresentano un ottimo affare, per il basso costo. E non pensiamo invece che quel costo, il vero costo di quell’abito o di quel paio di jeans o di quelle decolleté è pari al sudore, alla fatica e al sangue di un essere umano come noi nato però dalla parte ‘sbagliata’ del globo, quella più povera ed emarginata. Come il Bangladesh, dove appunto è avvenuta la tragedia di Rana Plaza e dove Andrew Morgan segue e intervista Shima Akhter, operaia tessile di 23 anni costretta a lasciare la propria bambina ai genitori presso il villaggio natio dove torna una/due volte l’anno. Shima lavora a Dhaka, si commuove teneramente quando parla della figlia ma piange di rabbia e di dolore quando ricorda la strage di Rana Plaza e dice “non voglio che qualcuno indossi qualcosa che è stato prodotto con il nostro sangue”.


Shima Akhter – courtesy of The True Cost movie

Il Bangladesh è il secondo esportatore più grande di abbigliamento dopo la Cina ed è scelto dalle grandi catene occidentali perché la produzione ha un costo praticamente nullo, i sindacati hanno un potere limitato, ostacolati come sono dal governo locale che ha il proprio tornaconto nello sfruttamento della manodopera. E così gli operai o meglio le operaie, perché l’85% sono donne e spesso purtroppo anche bambini, sono costrette a subire cucendo in silenzio, magari con il figlio neonato o poco più che dorme su un telo per terra accanto a loro perché non sanno dove lasciarlo.


Un’operaia tessile con il proprio bambino steso a terra – courtesy of The True Cost movie

Le proteste sono sedate con la violenza e anche con il sangue come racconta Shima, a capo di un sindacato tramite cui ha presentato alcune richieste ai manager della fabbrica; la risposta sono state botte violente con sedie, bastoni, bilance, forbici, calci e pugni all’addome, teste sbattute contro il muro. O come è successo a Phnom Penh, in Cambogia, nel 2014, quando la polizia ha soffocato nel sangue gli scioperi degli operai tessili che chiedevano un aumento del salario che era di 80$ al mese. Anche lì, quattro morti e numerosi feriti.

Un contadino utilizza fertilizzante sul raccolto – courtesy of The True Cost movie

Ma il documentario di Andrew Morgan tocca anche la questione altrettanto spinosa dell’agricoltura intensiva, della “terra trattata come una fabbrica”, di come il settore agricolo, per stare al passo con l’industria della ‘fast fashion’ che va sempre più veloce con ben 52 stagioni all’anno invece delle classiche due, riprogetti l’intero ciclo di produzione, come capita ad esempio con la pianta del cotone. Nel Punjab, considerato il ‘granaio dell’India’, gli agricoltori si indebitano per comprare le sementi e poi i pesticidi che tengano lontano i parassiti: “la tragedia delle sostanze chimiche, che siano fertilizzanti o pesticidi – dice l’ambientalista Vandana Shiva – è che sono ciò che è stato definito come narcotico ecologico ovvero che più li usi più hai bisogno di usarli. Per un po’ il raccolto aumenta e poi inizia a diminuire perché hai contaminato il suolo”. E alla fine il contadino, indebitato fino al collo, perderà la propria terra e si toglierà la vita bevendo quello stesso pesticida che ha ucciso il suo raccolto. Negli ultimi 16 anni sono stati registrati più di 250.000 suicidi di contadini in India, la maggiore ondata di suicidi registrata nella storia. Per non parlare degli effetti di queste sostanze chimiche sulla salute; studi approfonditi hanno dimostrato l’aumento di difetti congeniti, di tumori e malattie mentali nella regione.

Inquinamento da conceria – courtesy of The True Cost movie

A Kanpur ci sono invece le fabbriche che lavorano il cuoio, responsabili dell’inquinamento del Gange, il fiume sacro; ogni giorno più di 50 milioni di litri di acque reflue tossiche defluiscono dalle concerie locali, sostanze chimiche pesanti come il cromo 6 finiscono persino nell’acqua potabile. L’ambiente locale è contaminato, il suolo è contaminato.

Pugni nello stomaco, l’avevo detto. Ma il documentario dà anche una speranza, rappresentata da quelle persone che credono nella possibilità del cambiamento e in un approccio gentile e sostenibile, come Safia Minney, fondatrice del marchio fair trade People Tree. Premiata come Outstanding Social Entrepreneur dal World Economic Forum, Safia si dice sicura di un cambiamento profondo che toccherà i prossimi dieci anni e che il commercio equo è la risposta per correggere l’ingiustizia sociale. Intanto continua ad occuparsi del suo marchio etico che, collezione dopo collezione, dà occupazione e opportunità alle comunità e alle persone più emarginate, dal Nepal al Perù, dall’India al Bangladesh, coinvolgendole in ogni singolo passaggio della filiera produttiva di un capo. Anche LaRhea Pepper, produttrice texana di cotone, si dice fermamente convinta che le cose debbano e possano cambiare; dopo la morte del marito avvenuta a soli 50 anni per un tumore al cervello provocato dall’uso delle sostanze chimiche nell’agricoltura, LaRhea ha deciso che cambiare tipo di coltivazione era fondamentale, fondamentale nei confronti del pianeta in cui viviamo e dei nostri figli. E da allora si è convertita al cotone biologico.

Quanto mai attuale, ‘The True Cost’ invita davvero a una riflessione profonda sul nostro stile di vita, sui nostri desideri più inconsci e sui motivi per cui tutti noi, in fondo, cerchiamo la felicità nel consumo delle cose.

Consiglio la visione a chi non avesse ancora avuto modo. Qui sotto il trailer:

2 COMMENTS

  1. […] La fashion revolution week si incentra in particolar modo sul dramma etico in cui è invischiato il sistema moda. Possiamo cambiare, ed è molto più facile di quello che pensiamo (io cerco di portarvi il più possibile esempi pratici). Non è giusto che altri paghino con la vita il prezzo che non paghiamo noi per i nostri vestiti. L'immagine qui sotto è stata quella che più mi ha scioccato di tutto il docu film "The true cost". Questa è schiavitù e se, pur sapendo che questo succede, non facciamo niente e continuiamo a comportarci come abbiamo sempre fatto, siamo complici anche noi.Una mamma, costretta a cucire con suo figlio steso a terra sotto di lei. Da madre, mi spezza il cuore – Fonte Ecoaporter […]

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