Era fine agosto scorso quando i potenti del mondo si riunivano a Biarritz per il vertice del G7 e insieme a loro erano presenti anche 32 esponenti internazionali della moda e del tessile per firmare il Fashion Pact, una carta contenente una serie di obiettivi concreti per ridurre l’impatto ecologico causato dal settore.
Tra i firmatari del Fashion Pact, Adidas, Burberry, Chanel, Gap, H&M, Inditex e Kering, insieme per raggiungere essenzialmente questi tre scopi: arrestare il riscaldamento globale, creando un piano d’azione per azzerare le emissioni di gas serra entro il 2050, ripristinare la biodiversità per ristabilire gli ecosistemi naturali e proteggere le specie e proteggere gli oceani, riducendo l’impatto negativo dell’industria della moda mediante iniziative concrete, quali ad esempio la riduzione graduale della plastica monouso.
L’iniziativa del Fashion Pact è promossa soprattutto dal governo francese nella persona di Emmanuel Macron che ha affidato a François-Henri Pinault, presidente e CEO del gruppo del lusso Kering, il compito di riunire e coinvolgere gli attori più importanti del settore.
La Francia è in questo senso uno dei Paesi europei più impegnati, visto che ha già all’attivo la Roadmap per l’economia circolare (50 proposte finalizzate allo sviluppo dell’economia circolare del Paese) promossa l’anno scorso dal primo ministro francese Edouard Philippe.
Ora, ai 32 firmatari del Fashion Pact vanno ad aggiungersi altre 24 aziende internazionali tra cui le italiane Calzedonia Group e Geox, poi Bally, Farfetch, Decathlon, Gant, Kiabi e Mango, così che il numero delle adesioni sale a 56, per un totale di 250 marchi rappresentati.
Si tratta senza dubbio di notizie positive ma viene spontaneo chiedersi: perché queste stesse aziende, che si impegnano per la sostenibilità, continuano a essere poco trasparenti sulle condizioni lavorative della loro manodopera delocalizzata o sulla provenienza e/o lavorazione di certi materiali? Si sa, ad esempio, come H&M sia ancora restio a fornire dati sulle buste paga dei lavoratori nelle fabbriche del Terzo Mondo o come Prada, firmatario del Fashion Pact, non abbia ancora risolto la questione della piuma d’oca ottenuta tramite ‘spiumaggio’ violento dei volatili negli allevamenti dell’Est, dove la legislazione in fatto di tutela animale è carente.
Credo che se un marchio voglia essere davvero sostenibile, dovrebbe occuparsi di tutti gli aspetti produttivi e non solo di quelli strettamente ambientali. Ogni azienda, in questo senso, dovrebbe fare i conti con la propria ‘moralità’ e scegliere, in certi casi, l’umanità, il rispetto e la dignità, piuttosto del profitto.