In questi giorni sospesi, pieni di sgomento e di attesa infinita, non è semplice mettersi a scrivere due righe su cose che sembrano così poco rilevanti paragonate a ciò che stiamo vivendo. Ma a maggior ragione, perché questo blog è stato concepito ed è nato per offrire e diffondere un’alternativa sostenibile a un sistema che è pesantemente responsabile della distruzione del nostro Pianeta, è giusto andare avanti. Per me che continuo a crederci e per i miei lettori che spero possano trovare in questi post un motivo di interesse e distrazione in giornate così lunghe passate dentro casa.
Così, ecco, siccome la stagione di sfilate autunno/inverno 2020/2021 si è conclusa poco prima che scoppiasse la vera emergenza Coronavirus (e ricordo che già a Milano a fine febbraio alcuni eventi si sono svolti a porte chiuse o addirittura sono stati cancellati), ho pensato di fare un piccolo excursus di alcuni marchi che tra New York, Milano e Parigi hanno puntato molto sulla sostenibilità, pur rientrando nella moda mainstream e quindi non dichiaratamente etici.
Partendo dalla Grande Mela, Gabriela Hearst, designer uruguaiana di ready-to-wear di stanza a New York (anche se gestisce pure il ranch di famiglia in Uruguay) ha affrontato il tema ‘sostenibilità’ prima di molti altri colleghi e nel tempo ha dimostrato una vera passione per l’argomento, dal fissare obiettivi per eliminare la plastica alla misurazione dell’impronta di carbonio delle sue sfilate. La sua idea è che appena entrati in un nuovo decennio degli anni 2000, bisogna utilizzare il più possibile le risorse a portata di mano, non continuare a crearne di nuove. E la sua collezione, così come la passerella, allestita con gigantesche balle di carta tagliuzzate, sono state una metafora della sua visione.
Riguardo agli abiti, c’erano ad esempio un trench, una giacca e un paio di borse realizzati con delle rimanenze di Kilim turchi e un paio di cappotti color block ricavati da capospalla che ha decostruito e rimontato, mentre i coat blu navy e cammello erano sostanzialmente delle coperte assemblate e cucite con del filo bordeaux a contrasto. Le sciarpe a maglia grossa sono state invece realizzate a mano dal collettivo uruguaiano Manos usando più filato di cashmere riciclato rispetto alle stagioni precedenti.
Un altro designer che non è nuovo a pratiche responsabili è Phillip Lim che con la sua linea 3.1 Phillip Lim si impegna a utilizzare tessuti sostenibili, sia da riuso che da produzione certificata, tanto che è arrivato a utilizzarne il 50% per ogni collezione. Oltre ad aver rinunciato da qualche stagione a pelliccia naturale e a pelli esotiche, il suo guardaroba essenziale e sportivo, pensato per tutti i giorni, è fatto spesso di materiali patchwork e riciclati che si sono visti anche nella sua ultima collezione invernale.
Hillary Taymour è la fondatrice del marchio Collina Strada, nome originale come originale è l’approccio della designer che, soprattutto negli ultimi anni, ha abituato il suo pubblico a sfilate estrose e a una comunicazione molto incentrata sulla sostenibilità, fuori e dentro la passerella, tipo: ‘coltiva più cibo, fai acquisti localmente, fai attenzione agli imballaggi dannosi’ e così via. Più della metà della sua ultima collezione, ‘Garden Ho’, tappeto erboso calpestato dalle modelle, è stata realizzata con la seta-rosa, un materiale simile alla seta ottenuto dai petali di rosa e con tessuti di scarto.
A Milano le palme in plastica riciclata troneggiano sul set della sfilata di Francesco Risso per Marni che affronta tanti temi attuali, dalle foreste che si incendiano per interessi commerciali alla plastica che invade gli oceani e al cartone che, trasformato in packaging, soffoca case e città sotto forma di rifiuto. Gli abiti sono un collage dall’inizio alla fine, ottenuti da ritagli e rimanenze di pelle e di calicò (stoffa leggera di cotone greggio), così anche le borse, a loro volta ottenute dagli scarti degli scarti.
Solitamente non ci occupiamo della moda uomo ma se Ermenegildo Zegna avesse una linea femminile, applicherebbe sicuramente lo stesso principio che il suo direttore creativo Alessandro Sartori sceglie da qualche stagione per il menswear ovvero ricorrere almeno al 20% di tessuti di recupero, che per questa collezione è arrivato a toccare il 50%. “Arrivare a zero rifiuti potrebbe essere impossibile, ma dobbiamo mirare a questo” ha affermato Sartori.
Diesel ha invece lanciato DIESEL UP-CYCLING FOR 55DSL con la linea 55DSL creata nel 1994 come spin-off sperimentale di Diesel, poi rivista negli anni e oggi trasformata in una serie di collezioni di cui la prima realizzata con materiali di scarto del marchio. I capi sono patchwork colorati ispirati allo streetwear e ogni pezzo ha anche un proprio codice QR che consente al cliente di risalire alla realizzazione del capo, diciamo una sorta di #whomademyclothes.
A Parigi, oltre alla pioniera della sostenibilità Stella McCartney che, oltre ai suoi materiali cruelty-free e certificati, ha arricchito la passerella di simpatici animali-mascotte per sottolineare maggiormente il proprio impegno a favore di una moda rispettosa della natura, c’è stata l’allegra sfilata di John Galliano per Maison Margiela, entusiasta di aver spinto sull’acceleratore del riciclo e del vintage. I suoi esperimenti di upcycling confluiranno presto in un’etichetta denominata appunto Recicla e così i capi della collezione in passerella ne sono un assaggio, tra coat, trench e abiti con forme recuperate da guardaroba che vanno dagli anni ’20 ai ’70 del secolo scorso.
Meravigliosa e raffinatissima operazione di recupero da Alexander McQueen, altro marchio non nuovo al riuso e all’attenzione per materiali a ‘km zero’ o realizzati artigianalmente. La direttrice creativa Sarah Burton ha preso spunto dalla trapunta patchwork di Wrexham, esposta al St. Fagans National Museum of History di Cardiff, coperta realizzata da un sarto che dal 1842 per ben 10 anni, tutte le notti, la cucì utilizzando gli scarti riciclati dai panni di lana che di giorno usava per fabbricare le uniformi. Quindi abiti, cappotti e completi sono tutti un patchwork di flanelle recuperate da passate collezioni, mentre altri capi sono composti da ritagli di tessuti tradizionali maschili.
Spero di avervi fatto sognare un po’ con queste creazioni che uniscono responsabilità e bellezza. E’ positivo constatare come sempre più designer della cosiddetta moda mainstream prendano convinti la strada della sostenibilità, che non significa solo scegliere materiali certificati o riciclati ma anche favorire l’artigianato locale, il fatto a mano, le tradizioni e il lavoro di cooperative e associazioni che sostengono i diritti femminili e di popolazioni svantaggiate, come fa ad esempio il designer austriaco-nigeriano Kenneth Ize, che collabora con artigiani viennesi che lavorano il pizzo e con tessitrici nigeriane.
Con l’augurio che questa situazione generale passi presto, mando a tutti un caldo abbraccio virtuale e, mi raccomando, #restateacasa!