Il mio ospite di marzo non ha mai l’incombenza di fare la ‘nomination’ per quello di aprile, perché ad aprile cade la Fashion Revolution Week e mi lascio l’onere ma anche il piacere di scegliere da me chi intervistare. E così, è con grande piacere che condivido con i miei lettori la chiacchierata fatta con Sara Maino, Deputy Editor di Vogue Italia, Head of Vogue Talents e Brand Ambassador della Camera Nazionale della Moda, insomma tante cose tutte insieme.

Con Sara, che ha fatto della propria passione il proprio lavoro scoprendo nuovi talenti e dandogli una chance che è sempre difficile avere in un mondo come quello della moda, ho parlato soprattutto di sostenibilità e del rapporto che i nuovi designer hanno con essa, anche alla luce dei cambiamenti che l’emergenza Covid-19 sta inevitabilmente portando un po’ in tutti i settori.

Sara, ho letto che la tua prima esperienza nella moda è stata nella boutique di Corso Como 10 ma mi piacerebbe che me ne parlassi tu, raccontando il percorso che ti ha portato a essere, oggi, Deputy Editor di Vogue Italia e Head of Vogue Talents. A noi di eco-à-porter piacciono le storie!

Allora Corso Como aveva aperto da un paio d’anni e ci lavoravo mentre studiavo lingua e letteratura straniere allo IULM; sebbene sia cresciuta in un ambiente che ha sempre avuto a che fare con la moda, non è che a 19 anni avessi le idee molto chiare sul mio futuro, anche perché si sa che lavorare in famiglia non è mai semplicissimo. Dopo qualche mese ho voluto provare da Vogue Italia, iniziando come stagista; era tra il ’94/’95, tutto un altro periodo, con tempi più lenti e una gavetta lunghissima in cui ho avuto l’opportunità di lavorare in tutti i settori del giornale, dall’attualità alla bellezza alla grafica e, naturalmente, alla moda. Ai tempi i servizi fotografici venivano fatti all’estero, io facevo un po’ da corriere, passavo i vestiti ma ciò mi ha permesso di andare su set importantissimi tra cui quelli di Steven Meisel e Bruce Weber. Poi ho iniziato a fare assistenza alle due redattrici che ai tempi erano Anna Dello Russo e Alice Gentilucci, con Alice un po’ di più, dopodiché sono passata io stessa a fare la stylist e in quel periodo, dovendo fare anche molta ricerca, dagli abiti agli accessori, è nata e cresciuta la passione di cercare cose e talenti nuovi.

Un interno di Corso Como 10 – courtesy of CiaoMilano (Flick)

Allora avevamo un allegato sulle tendenze che usciva due volte all’anno, settembre e febbraio; durante le fashion week andavo alle fiere, negli showroom, facevo foto e nel 2004 abbiamo lanciato Who’s on Next con Alta Roma, che rappresentava già un sostegno al Made in Italy in un momento di grande fermo per i designer italiani. Quindi, seguendo questi allegati e dopo anni di ricerca, verso il 2008, ho deciso con Franca (Franca Sozzani, storica direttrice di Vogue Italia – NdR) di fare qualcosa di più focalizzato, inaugurando così ‘Vogue Talents’. Siccome tanti anni prima le porte a Vogue mi erano state aperte per molti motivi, mia zia era la direttrice della testata, per quanto comunque il mio percorso sia stato lungo e faticoso, ho pensato che ci dovesse essere qualcuno che aprisse la porta agli altri. Questa è una convinzione forte che non mi ha mai abbandonata, supportare le nuove generazioni, aprire le porte a chi se lo merita, perché naturalmente il talento non è di tutti.

‘Vogue Talents’ appunto e, siccome qui parliamo di moda etica, sono tanti i nuovi designer che scelgono la sostenibilità? Considerando l’intera filiera produttiva, qual è l’aspetto più etico che ti sembra privilegino nel loro lavoro?

Negli ultimi quattro, cinque anni ‘Vogue Talents’ si è maggiormente focalizzato su progetti responsabili e negli ultimi due anni ancora di più. Bisogna dire che tutta la nuova generazione è molto più sensibile a queste tematiche rispetto a noi, diciamo dai 25 anni in giù, anche perché sono cresciuti in un contesto in cui c’è un alto accesso alle informazioni e di conseguenza si è sviluppata una coscienza molto forte di ciò che sta succedendo. Direi che l’80% dei designer, oggi, è legato a progetti responsabili, anche perché chiunque decida di aprire un brand o una start up non può pensare di farlo senza tenere conto dell’aspetto sostenibile.

Riguardo agli aspetti etici, noto che in quasi tutti i lavori emerge il bisogno di raccontare una storia, una sorta di storytelling legato al proprio vissuto, alla propria realtà, come ad esempio chi fa maglieria si lega ad artigiani locali, del proprio territorio. E’ forte l’aspetto sociale, il senso di appartenenza, l’aiuto e il sostegno alle realtà vicine.

Sì, questa vicinanza alle realtà territoriali è una cosa che ho notato anch’io nei designer e i brand con cui sono entrata in contatto ultimamente. Sempre in relazione alla sostenibilità, in questo periodo di lockdown continuo a pensare che ora più che mai vada intesa nella sua accezione di ‘sostenere’, ‘fare bene e fare del bene’. Che significato assume e assumerà per te, dopo questa emergenza nel settore moda?

Ciò che mi auguro è che si dia una grande allentata alla produzione insensata e che ci si concentri maggiormente sulla qualità. Ci sarà sicuramente un’enorme quantità di stock da riutilizzare dopo l’emergenza, i magazzini saranno pieni di merce invenduta, anche questo potrebbe essere un buon punto di ri-partenza. Questa è un’esperienza che ci sta provando tutti, quindi che non siano solo parole quelle che si pronunciano adesso ma anche fatti, perché ne abbiamo bisogno. Oltre alla solidarietà quasi spontanea già dimostrata, i grandi designer e brand si stanno muovendo tanto ma penso lo comunicheranno nel momento in cui saranno davvero pronti. L’importante è che lo facciano, che lo comunichino, affinché il consumatore diventi più conscio, più consapevole. E forse questa situazione velocizzerà ulteriormente anche il sostegno ai nuovi talenti da parte dei grossi gruppi.

Ce lo auguriamo tutti. Riguardo ai nuovi talenti, ti va di farmi qualche nome votato alla moda etica che si distingue per una sua peculiarità stilistica?

Solitamente non amo fare nomi, però ci sono due designer, una italiana e una inglese, che si distinguono per collezioni responsabili e particolari: Flavia La Rocca, vincitrice dell’ultimo Franca Sozzani GCC Emerging Designer Award, produce da sei, sette anni una moda sostenibile e modulare che permette di creare un guardaroba infinito e multiuso. E’ un’idea smart in cui lei crede molto.

Un look dall’ultima collezione di Flavia La Rocca – courtesy of Flavia La Rocca

Helen Kirkum, giovane designer inglese, scompone e riassembla vecchie sneaker creando pezzi unici; io la considero un po’ la nuova John Lobb (storico calzolaio inglese). Il suo approccio, che lei stessa definisce “decostruttivo, tattile e di riassemblaggio”, ha un’estetica originale fatta di complessità e molteplici strati di texture. Ne ho citati due ma ce ne sono tantissimi e molto interessanti.

Lo immagino. Avrei tanto altro da chiederti ma per ora mi devo fermare qui e ti chiedo di farmi la ‘nomination’ per il mese di maggio.

Direi che, date le tematiche che tratti, Orsola de Castro.

Ottimo! Orsola de Castro è una delle fondatrici della Fashion Revolution, siamo in perfetto tema! Grazie mille Sara, è stato davvero un piacere e spero di averti di nuovo come ospite, magari tra qualche mese per vedere e commentare i risvolti reali di questa inattesa e complicata (ma anche ricca di opportunità a mio parere) situazione.

Articolo precedenteEarthday: a Planet beyond next season
Articolo successivoEco-à-porter challenge parte 2. Verso la fine del lockdown

2 Commenti

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci i tuoi commenti
Inserisci qui il tuo nome