Prima di lasciarvi qualche giorno, ma giusto qualche giorno, prometto, per la pausa estiva, voglio raccontarvi una storia. Amo raccontarne di storie, lo sapete bene, soprattutto quando parlo di marchi e creativi, non mi piace mai limitarmi alla mera descrizione di un brand e/o di progetto, ma cerco il vissuto, la persona dietro al brand o al designer.
Così oggi, in questa immobile giornata agostana, ho deciso di creare un bel po’ di movimento con la storia de ‘la Marchigiana’ alias Daniela Diletti, storia che ne racchiude tante altre, quella di una famiglia, di una donna, di un territorio e del nostro stesso Paese, tutti alla ricerca di nuove idee, vie e passioni.
Daniela viene da Force, un piccolo paese in provincia di Ascoli Piceno, Marche, che io stessa conosco bene perché, e qui apro una piccola parentesi di fatti miei, uno dei miei ex storici è proprio di lì. E difatti, quando ho incontrato Daniela, mi ha subito detto che lui e anche la sua famiglia, se li ricorda bene (il mondo è sempre più piccolo!). Daniela è figlia di Filomena e Gabriele, titolari di una piccola impresa calzaturiera nata negli anni ’80 che, dopo 40 anni di esperienza nel settore decidono, con l’aiuto della figlia, di invertire la tendenza degli ultimi anni passando dall’industriale all’artigianale, ricominciando dal piccolo e puntando sul territorio, i suoi saperi, il suo ritmo lento. Così, dopo la fabbrica, la casa diventa laboratorio e i ritmi quotidiani scandiscono la creazione di poche paia di scarpe, ma di alta qualità, uniche per design e lavorazione dei materiali.
Daniela ha una formazione in storia dell’arte che ha svolto tra Viterbo e Torino ed è proprio il capoluogo piemontese a diventare, quando torna a occuparsi dell’impresa di famiglia, punto di riferimento per il suo negozio/laboratorio, dove disegna e sviluppa le scarpe che prendono forma grazie appunto alla collaborazione con i genitori.
Le Marche e il Piemonte, Force e Torino, vita di campagna e vita di città; quella che ho avuto modo di conoscere, in parte, di Daniela, è la prima, perché sabato scorso ho seguito il suo workshop organizzato al ForceCraftLab, un laboratorio co-working realizzato grazie al contributo del Comitato Sisma Centro Italia. Lo spazio è destinato ad attività formative, corsi, workshop, laboratori volti a rilanciare l’artigianato, promuovendo la riscoperta di ‘nuovi’ mestieri, con la finalità di creare legami tra settori differenti, ma potenzialmente complementari, come il turismo e l’artigianato.
Il laboratorio di Daniela insegnava, in circa quattro ore, a realizzare a mano un sandalo in cuoio e io ho avuto la possibilità e la fortuna di seguire tutte le fasi del processo, dalla scelta della calzata, del pellame e dei colori al taglio della tomaia al montaggio fino al prodotto finale, qualcosa di davvero raro ai giorni nostri, abituati come siamo a vedere solo la scarpa o la borsa o l’abito quando lo scegliamo in negozio, senza sapere spesso chi e cosa c’è dietro ciò che acquistiamo.
Ebbene sì, ho visto ‘la Marchigiana’ in azione, capello lungo bianco naturale che la fa sembrare un po’ manga, anima punk che non le fa abbandonare lo stivaletto nero nemmeno d’estate, a tratti severa nell’impartire istruzioni, a tratti ironica e auto-ironica nell’affermare che, sì, per fare scarpe ci vuole “cattiveria e sofferenza”, è tutto un tagliare e bucare e incollare e ci vuole tempo, pazienza, precisione ma alla fine la fatica premia.
L’artigianato, l’handmade, è questo, non ci si improvvisa, non si scelgono materiali a caso, non ci si distrae, si lavora con la qualità e l’esperienza e si cerca, come fa con successo Daniela, di traghettare un mestiere antico nell’era digitale, con i social che, se usati con sapienza, amplificano certi virtuosismi e li rendono ancora più preziosi.
E, a proposito di materiali, la pelle? Noi che a eco-à-porter di pelle parliamo raramente, sia perché privilegiamo materiali cruelty-free, sia perché l’industria della pelle e della concia è super-inquinante, la prima domanda che ho fatto a Daniela è proprio quella riguardo alla pelle, certificazioni, tracciabilità, ecc ecc. Avendo l’occhio allenato, sia Daniela che suo padre sanno distinguere un pellame di alta qualità da uno che non lo è, come conoscono le concerie che lavorano con pellami italiani e questo è già un buon punto di partenza; si tratta poi di materiale proveniente da stock, merce che è stata ritirata dai calzaturifici e che continua ad avere il suo valore, quindi la sostenibilità sta proprio nell’utilizzare merce preesistente, piuttosto che generarne di nuova inquinando l’ambiente, che si sa che l’industria della concia è una delle più pesanti a livello ambientale.
Passare a parlare di tessuto è un attimo, anche qui il termine che ricorre è quello della sovrapproduzione e di come sia necessario, in tempi di post-Covid ancora di più, usare ciò che abbiamo già a disposizione, svuotare i magazzini, sostituire invece che buttare. E che anche una scarpa usata di prima qualità con la suola sostituita è bella uguale, anzi, “è più figa”. E mi porta l’esempio dei giapponesi che hanno la passione per il trattamento delle scarpe vecchie e scuciono la suola sostituendola con una magari più aggressiva, più moderna, accrescendone il valore, anche economico.
E arriviamo così al concetto di upcycling, tanto caro al nostro blog; Daniela stessa fa upcycling con una linea di scarpe che ha chiamato Metàsandalo, di cui io stessa sono innamorata. Il Metàsandalo, come suggerisce la parola stessa, è un sandalo a metà che può fungere anche da scarpa chiusa in base all’utilizzo degli elementi annessi; è composto da una suola in gomma, una soletta in cuoio che assorbe il sudore, asole in pelle rinforzata e due paia di fasce e di copri dita in lycra sensitive dai colori abbinati. La lycra è di magazzino, difatti l’idea è nata in collaborazione con Le Clotilde, duo al femminile che compone, riassembla, trasforma gli abiti e lavora molto con la lycra, appunto. Dagli scarti dell’una e dell’altra è nata questa idea di successo che offre svariate possibilità sia cromatiche che di utilizzo: ogni sandalo ha quattro elementi in lycra così da avere potenzialmente otto sandali di colore diverso e si può allacciare alla schiava o portare a ciabattina.
Oltre alle scarpe ‘La Marchigiana’, Daniela produce anche una linea omonima di borse che vogliono adattare la classicità della borsa in pelle artigianale, fatta a mano, ai ritmi e alle esigenze della vita in città con soluzioni pratiche indossabili in diverse opzioni: fasce zaino e tracolle rimovibili, dimensioni adatte a contenere documenti e computer portatili e così via. E poi c’è ‘Souvenir d’Italie’, brand più recente che affonda le radici nel passato, il cui nome si ispira al fenomeno settecentesco del Grand Tour, ma con la vivacità di uno stile contemporaneo che cerca di comunicare il fatto a mano alle nuove generazioni.
Ci sarebbero tante altre cose da dire ma spero di avervi dato l’input per approfondire la storia di questa ragazza marchigiana che lavora fianco a fianco con il proprio immaginario e lo inserisce con passione nelle sue creazioni, offrendo alla propria clientela “spunti nuovi e possibilità a cui non avrebbero mai pensato”. E’ questo, secondo Daniela, il ruolo del designer e dell’artigiano contemporaneo.