Apro questo mese di giugno, che avvia la nostra vita verso la cosiddetta fase 3 del post-pandemia (un ulteriore passo verso la normalità con l’apertura fra regioni) toccando nuovamente un argomento affrontato sotto vari aspetti in queste ultime settimane di uscita dall’emergenza.

Mi riferisco ai cambiamenti cui sta andando incontro il settore moda, alle riflessioni e alle proposte che stanno emergendo dagli stessi addetti, che siano designer, retailer, produttori, come ad esempio la lettera aperta all’industria della moda di Dries Va Noten di cui abbiamo parlato pochi giorni fa.

Interessante a questo proposito lo studio condotto da Espresso Communication per Bigi Cravatte Milano su oltre 20 testate internazionali di tendenze e attualità nei campi della moda, del design e del lifestyle e dedicato al fenomeno del ‘back in time’, trend che mira a riportare la moda a un passato virtuoso, riscoprendo i valori di un tempo, per riparare ai danni causati dai 7 vizi capitali del fast fashion. 

La quarantena ha costretto tutti noi a rallentare il passo, aprendo la porta a uno stile di vita più semplice, fatto quasi esclusivamente di acquisti necessari, meno sprechi e più tempo trascorso in famiglia. Ed è così che, amplificando un trend già in atto da qualche tempo, si comincia a dare ulteriore importanza all’artigianato e ai prodotti realizzati a mano e in modo sostenibile.

L’idea sarebbe quella, quindi, di riscoprire il passato e riprenderne alcuni valori, cogliendo l’occasione per rimediare ai vizi capitali cui parte del fashion ha ceduto negli ultimi anni:

  • superbia, ovvero pensare di essere più importanti del Pianeta, occorre quindi ripensare il sistema di produzione, preferendo tessuti e lavorazioni compatibili con la salute della Terra e dei suoi abitanti;
  • avarizia, cioè farsi guidare esclusivamente dal profitto e optare per manifatture a basso prezzo; preferire lavorazioni industriali a quelle manuali e di qualità può non essere la scelta vincente, dato che oggi l’artigianalità rappresenta un valore aggiunto, capace di guidare le scelte del consumatore e incrementare le vendite;
  • lussuria, che significa cercare di soddisfare i piaceri dei clienti con capi fatti per non durare. Riscoprire invece abiti dimenticati e riadattarli è per esempio un trucco utile per rinnovare il guardaroba senza fare nuovi acquisti;
  • invidia, ovvero desiderare di essere come chi produce tanto, non come chi produce bene. Da tempo sono diversi i brand che hanno optato per massicce delocalizzazioni, mentre la produzione locale tornerà protagonista di una fase di espansione e gli atelier artigianali vivranno un momento di rinascita. Parola chiave sarà glocalizzazione, un approccio che consiste nel mantenere le specificità locali, aprendosi però a un mercato globale;
  • gola, cioè produrre un’eccessiva quantità di capi durante il corso dell’anno. Il possibile antidoto potrebbe essere di creare una sola collezione per stagione e riproporre le rimanenze degli anni precedenti;
  • ira, arrabbiarsi per l’emergenza in corso: in questo momento l’imperativo è non limitarsi a osservare la situazione in corso con frustrazione, ma utilizzare questo tempo per organizzarsi e costruire un nuovo rapporto con i clienti;
  • infine accidia, resistenza al cambiamento: nonostante le evidenze che mostravano le debolezze del fast fashion, il settore non ha modificato le proprie abitudini negli ultimi anni. Ed ecco che ora la moda si vede costretta a superare questa avversione al rinnovamento e a costruire un futuro diverso.

Puntare quindi su glocalizzazione, sostenibilità, artigianalità, coerenza e tradizione, guardando al passato ma per costruire un futuro diverso, può rappresentare il modo giusto e più rispettoso per ripartire dopo questo terribile stop.

La foto di copertina è di Will Buckner

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