Micro o macro-sistemi non fa differenza; lo scoppio della pandemia da Coronavirus ci sta portando tutti a riflessioni e interrogativi sul dopo, perché se adesso siamo ancora in piena emergenza, arriverà un momento in cui si dovrà tutti ripartire e niente sarà più come prima.

Anche l’industria della moda, con le sue delocalizzazioni e lo sfruttamento spesso selvaggio delle economie più povere del Pianeta, dovrà rivedere certi meccanismi, a partire dalle catene di fornitura che coinvolgono produttori e lavoratori svantaggiati che non godono delle stesse condizioni di protezione sociale di coloro che operano nei Paesi fortemente industrializzati.

E’ un problema che si stanno ponendo anche gli operatori della moda etica e a questo proposito ho trovato diversi interventi interessanti sul tema, tra cui quello di Simone Cipriani, funzionario Onu che per conto dell’International Trade Centre ha ideato ed è responsabile dell’ Ethical Fashion Initiative, programma che impiega i micro-artigiani delle aree più svantaggiate del mondo nelle produzioni dell’alta moda. Il progetto di Cipriani consiste nel mettere alcuni artigiani, al 98% donne in situazioni di marginalità, in condizione di diventare fornitori delle grandi case di moda, aiutandoli a organizzarsi in cooperative e creando degli hub locali che si interfaccino con i compratori internazionali. Contemporaneamente l’iniziativa ambisce a diffondere i principi della moda etica nel mondo.

Simone Cipriani

Un intervento recente di Simone Cipriani sul magazine online Drapers ha spiegato gli effetti che questa emergenza potrebbe produrre, e nei fatti lo sta già facendo, sul funzionamento delle catene di approvvigionamento a livello globale.

Nelle parole di Cipriani ho trovato purtroppo riscontro a dei pensieri che io stessa mi sono fatta quando l’epidemia ha cominciato a diffondersi bloccando il lavoro di imprese e fabbriche; ma se abbiamo così tanti problemi qui, nel nostro mondo iper-industrializzato, come sarà nelle aree più povere del mondo, come faranno tutti gli operai che lavorano assiepati ore e ore in quei laboratori tessili dove spesso scoppiano anche incendi per la mancanza delle minime condizioni di sicurezza?

In pratica non potranno fare nulla se non continuare a lavorare, andando incontro a ulteriori disagi e, in molti casi, a un alto tasso di mortalità. Così spiega Cipriani: “mentre marchi e rivenditori nel mondo occidentale si affrettano a far fronte alle implicazioni commerciali della pandemia da Coronavirus e dell’imminente recessione, il tessuto sociale e umano di intere comunità in contesti meno fortunati è destinato a essere letteralmente spazzato via. Le cancellazioni degli ordini potrebbero far fermare le catene di approvvigionamento nei Paesi in via di sviluppo e le conseguenze allarmanti potrebbero essere aumenti della migrazione, del terrorismo, del traffico di esseri umani e di stupefacenti mentre la delicata struttura sociale di quelle comunità si lacererà”.

Se le condizioni erano già precarie prima, e quanto ne abbiamo parlato qui nel blog dedicando anche ampio spazio al bel documentario di ‘The True Cost‘ sulle condizioni degli operai tessili sfruttati dall’industria della moda occidentale, in particolare della cosiddetta ‘fast fashion’, ora non potranno che peggiorare ulteriormente e un sistema sanitario debole unito a salari da fame non saranno di certo in grado di coprire le esigenza dei lavoratori e delle loro famiglie. Diciamo che è un serpente che si mangia la coda: senza un salario di sussistenza e un’assistenza sanitaria adeguata il virus non può che diffondersi rendendo quasi impossibili misure di mitigazione della pandemia.

Continua Simone Cipriani: “La pandemia ha colpito pesantemente marchi e rivenditori che stavano per commercializzare le proprie collezioni estive; enormi affitti per spazi di vendita al dettaglio pagati per negozi vuoti e anche la vendita online sta soffrendo, tonnellate di prodotti si accumulano nei centri di evasione-ordini in attesa che i flussi commerciali riprendano. Di conseguenza, la disoccupazione aumenta e l’incertezza si diffonde ovunque. Se i blocchi dureranno più di due mesi, l’industria sarà costretta ad adottare misure che aumenteranno la pressione sui produttori, spesso localizzati nei Paesi più poveri. Inizialmente, dovranno giocare al recupero, quindi i tempi di sviluppo e produzione del prodotto saranno più brevi che mai. Esiste il pericolo che i dipendenti vulnerabili lavorino anche se malati, portando a una seconda ondata di contagi. Se i mercati principali resteranno chiusi per un tempo più lungo, gli ordini verranno annullati e le persone che fanno parte della catena perderanno il lavoro”.

Non è una bella prospettiva. Ma che soluzione c’è? La risposta di Cipriani è semplice e complessa insieme: collaborazione, la stessa che tutto il mondo sta cercando di mettere in atto per fronteggiare una situazione mai capitata prima. “Dobbiamo lavorare insieme per aiutare tutti gli attori della catena a sopravvivere agli shock economici e sociali che la pandemia causerà. Marchi, rivenditori e grandi produttori dovranno lavorare insieme per supportare i loro partner più piccoli e deboli in modo che tutti possano sopravvivere”.

Perché in realtà è di questo che stiamo parlando. Di sopravvivenza.

La foto in copertina è di Mona Mijthab

Articolo precedenteNaturaSì, tanti i legami del biologico
Articolo successivoNell’attesa … parte la eco-à-porter challenge

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci i tuoi commenti
Inserisci qui il tuo nome