Qualcuno di voi ricorderà il post dedicato al volume ‘Filare, tessere, colorare, creare. Storie di sostenibilità, passione ed eccellenza’, redatto dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) insieme a Donne in Campo-Cia, l’associazione italiana di imprenditrici e donne dell’agricoltura, che ha tra l’altro appena lanciato il marchio registrato Agritessuti. Presentato a Roma la scorsa primavera, il volume era il frutto di un’indagine sulla produzione eco-compatibile di fibra da fonti naturali e/o di recupero, di filati da tessitura artigianale, tintura e confezioni naturali presenti sul territorio nazionale.
Per dimostrare che un’altra moda è possibile, il 24 settembre scorso, sempre a Roma, l’associazione femminile di Cia è tornata con un’altra iniziativa chiamata ‘Paesaggi da indossare – Le Donne in Campo coltivano la moda’, dedicata al connubio tra agricoltura e abbigliamento sostenibile realizzato appunto con prodotti e scarti agricoli.
Mettere insieme agricoltura, ambiente e abbigliamento; le testimonianze portate dalle imprenditrici Luisa Bezzi e Francesca Cosentino, impegnate rispettivamente nella coltivazione della canapa e in quella della seta e poi l’intervento della ricercatrice Silvia Cappellozza del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (CREA) sui ‘Tentativi per il riavvio di una filiera della seta: il laboratorio veneto’ hanno fatto il punto su una filiera che oggi coinvolge circa 2.000 aziende agricole italiane per un fatturato di quasi 30 milioni di euro con le attività connesse.
E la sfilata etica di abiti da sera e prêt-à-porter realizzati in stoffe bio e colorati con ortaggi, frutta, radici, foglie e fiori, che ha chiuso l’evento, è stata una dimostrazione pratica e tangibile delle potenzialità degli Agritessuti e delle tinture provenienti dagli scarti agricoli come le foglie del carciofo, le scorze del melograno, le bucce della cipolla, i residui di potatura di olivi e ciliegi, i ricci del castagno.
“E’ una filiera tutta da costruire, ma di cui abbiamo il know-how, considerata la vicinanza tra le donne e la tradizione tessile, nella storia e ancora oggi” sottolinea la presidente nazionale di ‘Donne in Campo-Cia’ Pina Terenzi. “Per questo ribadiamo la necessità di dare vita a tavoli di filiera dedicati, al Ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali, a sostegno della produzione di fibre naturali, a cui andrà affiancata la creazione di impianti di trasformazione, diffusi sul territorio e in particolare nelle aree interne, per mettere a disposizione dell’industria e dell’artigianato un prodotto di qualità, certificato, tracciato e sostenibile”.
D’altra parte, è l’ONU per primo, con l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, a sollecitare la costruzione di nuovi sistemi di produzione a minore impatto ambientale e che anzi possano avere un ruolo positivo nei processi di riduzione dell’inquinamento, nel riciclo delle risorse e nella mitigazione dei cambiamenti climatici.
“Oggi invece – sottolineano ancora le ‘Donne in Campo di Cia’ – l’industria tessile è la seconda più inquinante al mondo, responsabile del 20% dello spreco globale di acqua e del 10% delle emissioni di anidride carbonica. Una maglietta richiede, in media, 2.700 litri d’acqua per essere prodotta, un jeans fino a 10.000 litri, utilizzando soprattutto fibre e coloranti di sintesi. Considerato che il consumo mondiale di indumenti è destinato a crescere di oltre il 60% entro il 2030, è evidente quanto siano enormi le potenzialità di una filiera del tessile ecologicamente orientata, fino a rappresentare il 15-20% del fatturato del settore in Italia (4,2 miliardi)”.
E allora sarebbe importante dare linfa vitale e sostenere l’agricoltura tessile e chi la produce, per contribuire al processo di cambiamento, con le donne promotrici di un nuovo modo di vivere la moda nel rispetto del pianeta.