Fashion Revolution è diventata una presenza costante a eco-à-porter, possiamo dire di averla sostenuta dall’inizio e di aspettare sempre con ansia la settimana ad essa dedicata, che cade a fine aprile.
Ma c’è una cosa di cui non abbiamo ancora parlato, o meglio, l’abbiamo nominato ma mai approfondito come meritava: si tratta del Fashion Transparency Index, uno strumento che il movimento ha introdotto per spingere i principali marchi a essere più trasparenti al fine di responsabilizzarli nei confronti delle rispettive catene di fornitura.
Il Fashion Transparency Index è stato utilizzato per la prima volta nel 2016 e da allora c’è stato un sensibile aumento della trasparenza da parte di alcuni dei più grandi marchi di moda del mondo, creando anche una collaborazione tra sindacati e varie organizzazioni della società civile e i brand stessi per un miglioramento delle condizioni dei lavoratori coinvolti nelle fasi della produzione.
Giunto alla sua sesta edizione, il Fashion Transparency Index ha analizzato quest’anno 250 marchi e rivenditori mondiali in base alla divulgazione pubblica che fanno delle politiche, delle pratiche e degli impatti sui diritti umani e ambientali nelle proprie operazioni e nelle catene di approvvigionamento.
Dunque, che cosa è emerso da questa ultima analisi? Che purtroppo i progressi sulla trasparenza nel settore della moda globale sono ancora troppo lenti, con i marchi che hanno raggiunto un punteggio medio complessivo di appena il 23%.
Cosa nota già dai risultati dell’anno scorso, che avevano indicato che la maggior parte dei brand non diffonde ancora informazioni per esempio sui salari pagati ai lavoratori delle catene di approvvigionamento: molti di loro (il 99%, praticamente tutti!) non rivela nemmeno il numero di lavoratori che riceve un salario dignitoso (forse perché non ce n’è?).
Sappiamo anche che molti marchi hanno continuato a trarre profitto durante la pandemia, mentre i lavoratori dell’abbigliamento hanno subito gli effetti devastanti degli ordini annullati, come i salari non pagati, l’instabilità occupazionale e la povertà. Eppure solo il 3% dei brand sta rivelando il numero di lavoratori licenziati nelle proprie catene di approvvigionamento a causa di COVID-19, il che ci lascia un quadro incompleto dell’impatto socio-economico negativo della pandemia.
Riguardo all’uguaglianza razziale e di genere, solo il 12% dei marchi ha rese pubbliche le proprie azioni sulla promozione della stessa all’interno della propria attività, idem per i dati legati alla crisi climatica, sia per quanto riguarda i numeri su plastica, rifiuti e materiali sostenibili, sia sulla quantità complessiva di prodotti realizzati annualmente, rendendo difficile la comprensione dell’entità della sovrapproduzione a livello globale.
Ma vogliamo fare qualche nome? Tra i brand ‘virtuosi’, diciamo quelli che si stanno impegnando per una maggiore trasparenza ci sono OVS, che figura al primo posto con 78 punti rispetto ai 44 dell’anno scorso, H&M a 68, The North Face e Timberland a 66, mentre tra i marchi con il punteggio più basso ci sono Tom Ford, Billabong, Max Mara e Tory Burch.
Comunque per i dati completi, numeri e percentuali varie, potete scaricare l’Index e leggervelo per bene per rendervi conto di quanto la trasparenza sia il primo vero passo verso la sostenibilità.