Avete mai pensato che il termine ‘sostenibilità’, oltre a comprendere tematiche ambientali, sociali ed economiche, possa avere a che fare anche con concetti come razza, età, estetica? Che essere in-sostenibili possa coincidere con l’essere razzisti, elitari ed esclusivi?

‘Definitely’, direbbero in America, patria di Abercrombie & Fitch, lo storico colosso di moda a stelle e strisce fondato nel 1892 a New York dall’imprenditore David T. Abercrombie, inizialmente come fornitore di materiale e abbigliamento sportivo ed escursionistico, poi trasformatosi in marchio di livello, rivolto, soprattutto a partire dagli anni ’90, ai giovani.

Ai giovani e basta? No ed è qui che entra in gioco l’insostenibilità di cui sopra, tirata in ballo da un nuovo documentario di Netflix uscito il 19 aprile scorso, che mi sono guardata per capire come un marchio iconico e di successo possa screditarsi nel tempo, ‘morendo della stessa spada con cui ha colpito’.

White Hot: the Rise & Fall of Abercrombie & Fitch‘, di Alison Klayman, si concentra sul periodo d’oro del marchio, quello cioè compreso tra gli anni ’90 e i primi 2000’, quando per i ragazzi e le ragazze americani indossarlo equivaleva a dire “guardatemi quanto sono cool”, fino ad arrivare al 2015, quando svanisce del tutto quell’aurea di brand ambitissimo a causa di diversi scandali legati alla discriminazione razziale ma non solo.

Perché ciò che ha reso ‘Abercrombie & Fitch’ così dannatamente figo non è il design o la qualità dei vestiti, anzi, come dice uno degli intervistati nel documentario, Alan Karo, esperienza pluri-ventennale nel brand management, “i vestiti non erano niente di che ma l’etichetta e la scritta Abercrombie sul petto erano un segno di riconoscimento”.

Uno status symbol, quindi, ma non per tutti; il pubblico cui si rivolgeva infatti, non era solo giovane ma anche sexy, di bell’aspetto e … bianco. E per ribadire il concetto, non solo i modelli delle pubblicità ma anche i commessi dei vari store dovevano corrispondere a questo ideale e avere quell’atteggiamento strafottente per cui la cosa più importante non era vendere ma farsi vedere e piacere.

Alcune pubblicità di Abercrombie & Fitch degli anni ’90 – courtesy ‘White Hot …’

Abercrombie & Fitch si pone in quel momento come una furba via di mezzo tra la sessualità venduta da Calvin Klein e lo stile preppy di Ralph Lauren, “abbastanza ambizioso ma non troppo costoso da essere irraggiungibile” e negli anni ’90, quelli delle top perfette e dell’intimo a vista, fa centro.

La t-shirt incriminata, in cui si fa la finta pubblicità di un servizio di lavanderia, il Wong Brothers Laundry Service, con lo slogan ‘Two Wongs Can Make It White’ ovvero due cinesi Wong possono renderlo bianco. courtesy ‘White Hot ….’

Ma, si sa, le mode cambiano e il passaggio agli anni 2000 comincia a creare una nuova consapevolezza nei consumatori: una t-shirt in particolare, in cui vengono palesemente presi in giro gli asiatici, è all’origine di forti proteste pubbliche, cui seguono diverse inchieste e reportage giornalistici in cui emerge chiaramente che le assunzioni da Abercrombie sono basate sull’aspetto e sulla razza, così come i licenziamenti.

Nel 2004 parte una class action di alcuni dipendenti discriminati, tutti non bianchi, destinati ai turni di notte o a lavorare in magazzino e licenziati senza preavviso, che porta il brand a modificare le prassi di assunzione e marketing ma senza sanzioni specifiche. Tutto cambia senza cambiare e Abercrombie va avanti come prima ma, come dicevo, i tempi sono maturi per una moda più inclusiva e sono gli stessi consumatori ad averne abbastanza della politica discriminatoria del brand.

Lo stesso Mike Jeffries, biondone californiano, CEO del marchio e ideatore della sua estetica elitaria, è costretto, dopo più o meno 20 anni di amministrazione, a lasciare, non prima di aver ammesso, però che, “sì, siamo esclusori, non tutti possono indossare i nostri abiti, non voglio che tutti li indossino”, ribadendo il concetto del ragazzo bianco e americano.

Oggi l’immagine di Abercrombie è cambiata, allineandosi a quello che cercano di fare i marchi che vogliono aderire a pratiche di moda inclusiva e non potrebbe essere altrimenti, data la strada che l’industria del fashion ha preso verso un sistema più sostenibile.

Ma la macchia resta, una macchia ben più vistosa se si pensa che la discriminazione razziale e fisica perpetrata per anni dal marchio non è stata un errore o una “citazione”, bensì il suo brand, la sua identità, qualcosa radicato a tutti i livelli”.

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