Di libri dedicati alla moda etica, negli ultimi anni, ne sono usciti parecchi; con approcci diversi, gli autori cercano di fare chiarezza e dare informazioni su un tema che per molti aspetti ancora chiaro non è e questo perché il termine ‘sostenibilità’, che fa un po’ capo a tutto, non solo è molto generico ma è diventato ormai così inflazionato, nella bocca di tutti, che si è perso di vista il suo vero significato, in particolare se applicato al complesso sistema della moda.

Qui a eco-à-porter abbiamo parlato ad esempio di ‘La rivoluzione comincia dal tuo armadio’ di Marina Spadafora e di ‘I vestiti che ami vivono a lungo’ di Orsola de Castro, consapevoli che ognuno di essi potesse dare un apporto alla conoscenza del mondo della moda e del suo rapporto con le sfide legate alla sostenibilità.

Oggi è il momento di ‘Fashionisti consapevoli’ di Francesca Rulli, edito da Flaccovio, libro che, se l’educazione alla moda sostenibile diventasse materia di studio, potrebbe essere adottato come manuale, perché fornisce in modo chiaro e snello, senza mai cadere nel didascalico, informazioni preziose ma anche strumenti e dritte per farsi qualche domanda e trovare anche delle risposte valide sulla sostenibilità della filiera della moda.

Il mio intento qui, data la grande quantità di importanti dati contenuti nel libro, è quello, non solo di darvi un’idea di come la Rulli scelga di accompagnare il lettore nei vari passaggi di una filiera lunga e articolata ma anche di invogliarvi a leggerlo, questo volume, perché vi sarà di aiuto, come lo è stato per me, a districarvi in una fitta trama in cui si intersecano leggi, disposizioni, processi, materiali, ecc, che vanno prima di tutto compresi, sia singolarmente sia nel complesso in cui si interfacciano.

Francesca Rulli

Intanto posso dirvi chi è Francesca Rulli, solido background nel campo dell’ingegneria dell’organizzazione e del business process management, CEO della società di consulenza da lei stessa creata Process Factory e fondatrice nel 2013 di 4sustainability, marchio registrato che garantisce le performance di sostenibilità della filiera del fashion & luxury, oltre che consulente di Zero Discharge of Hazardous Chemicals (ZHDC), il più importante sodalizio internazionale di brand e aziende della filiera moda impegnato nella riduzione delle sostanze chimiche dei processi produttivi.

Con queste premesse e competenze in ‘Fashionisti consapevoli’ Francesca butta giù un vademecum per orientarsi nella moda sostenibile, con la necessità di fare innanzitutto chiarezza in un panorama confuso in cui, soprattutto il consumatore, ha bisogno di “analisi veritiere e affidabili” come scrive Matteo Marzotto nella prefazione, di “consapevolezze possibili che creino priorità e quindi cambiamenti”. Non serve e non esiste nemmeno, dice la Rulli, “una lista della spesa che ci dica in maniera inequivocabile cosa è sostenibile e cosa non lo è”, insomma nessuna “soluzione magica” ma piuttosto “condizioni per farsi le domande giuste” e, come dicevamo prima, trovare anche delle risposte.

Quindi aiuta prima di tutto dividere la macro-area della sostenibilità in tre ‘micro’-aeree che sono quella ambientale, sociale ed economica, che il mondo della finanza denomina con la sigla ESG ovvero environmental, social e governance, in cui la governance è il collante di tutte e tre le sfere, è il modello economico che spinge a credere “nella meritocrazia, nell’equa rappresentanza di genere e delle minoranze, nel contrasto a ogni forma di corruzione, nelle retribuzioni eque e dignitose.” Sappiamo che poi in realtà, garantire questo equilibro, quindi una buona governance, è difficile, soprattutto in certe aree del mondo.

Tante sono poi le pagine dedicate agli aspetti legislativi, alla gestione delle sostanze chimiche, all’impegno che gruppi, associazioni, brand hanno preso per affrontare le varie tematiche in modo mirato, come Global Fashion Agenda, nata dal Copenhagen Fashion Summit, che pubblica ogni anno la CEO Agenda, report che passa in rassegna le questioni più urgenti che l’industria della moda deve affrontare.

Imprescindibili le certificazioni, ognuna col proprio logo e definizione in tabella, cui è importante, scrive Francesca, “considerare e valorizzare per quello che sono, cioè un segnale, non certo una panacea” ovvero che se il prodotto di un brand riporta in etichetta un dato standard, non è detto che poi ogni singolo parametro di quello standard sia stato rispettato. Però ci dà un’idea sull’impegno di quel brand.

Hakan Karaosman

Incisivo l’intervento di Hakan Karaosman, ricercatore dell’University College Dublin, esperto di sostenibilità nella supply chain della moda, che parla del problema della sovrapproduzione, dell’importanza del dialogo sociale dando la possibilità ai consumatori di essere parte delle soluzioni ma anche del fatto che “piaccia o no, la filiera della moda è globalizzata e lo rimarrà”, perché sarebbe una catastrofe economica se da un giorno all’altro, per magia, le filiere dei grandi marchi scomparissero da Paesi come Bangladesh e Vietnam. Come si sostenterebbero milioni di famiglie? Il discorso è: siano i brand più responsabili!

E poi consigli su film e documentari tematici, su come riconoscere e difendersi dal fenomeno del greenwashing, su come dare un’informazione sostenibile (coinvolti anche noi giornalisti, ops!) e definizioni di tanti termini che ormai dobbiamo imparare a conoscere: LOHAS, compliance, social washing, Tier (alcuni non li conoscevo nemmeno io, ve lo assicuro).

‘Dal materiale al prodotto’, infine, è un excursus ben articolato sui vari materiali con i loro vantaggi, punti critici e alternative, perché “ogni fibra ha le sue peculiarità e si presta per alcuni usi e non per altri”; fondamentale qui l’apporto di Textile Exchange, organizzazione che svolge un’imponente ricerca sulle materie prime tessili, aggiornando i dati ogni anno e illustrando i progressi delle fibre ‘preferred’, cioè con attributi di sostenibilità.

Concludendo Francesca non disdegna anche qualche dritta per un guardaroba più sostenibile, con domande mirate da porsi al momento dell’acquisto, una tra tutte “quante volte lo userò?” (ponetevela sempre questa domanda, soprattutto quando siete presi da raptus compulsivo!) e ci aiuta a districarci anche sull’interpretazione dell’etichetta, lavaggio compreso.

Ve l’avevo detto che ‘Fashionisti consapevoli’ non è soltanto un libro ma un manuale, solo scritto con un linguaggio semplice, scorrevole, divulgativo senza essere ‘accademico’, un lavoro articolato ma fruibile da tutti e che, alla fine, ci lascia chiaro e ineludibile un messaggio: siamo noi consumatori ad avere un ruolo fondamentale per far si che la moda intraprenda quel percorso verso la sostenibilità in modo sempre più trasparente e credibile. Come? Informandoci, non smettendo di farci e fare domande, pretendendo di trovare le informazioni necessarie per fare scelte consapevoli. Soltanto così “spingeremo l’intero sistema produttivo a correggersi e ad accelerare la corsa verso la riduzione di impatto. Qualsiasi cambiamento può spaventare e questo non fa eccezione. Ma è una sfida per cui vale la pena di lavorare fianco a fianco, tutti insieme”.

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