Cominciando a scrivere, oggi, mi vengono in mente due cose correlate, anche se accadute in diversi periodi della mia vita (ma tutto per me è interconnesso); la prima, e che ho già citato nell’intervista del mese di maggio scorso a Orsola de Castro, che il mio primo contatto diretto con un brand etico è stato nel 2008, mentre frequentavo un corso di giornalismo ambientale a Roma. Il marchio era From Somewhere, fondato proprio da Orsola de Castro e il marito Filippo Ricci nel 1997, si basava sull’upcycling e ancora ricordo il colpo di fulmine con certi capi che Ricci ci portò da visionare.

Orsola de Castro

La seconda cosa cui penso è che aprendo il blog, circa dieci anni dopo, una delle prime cose con cui sono venuta in contatto è stata Fashion Revolution, movimento fondato proprio da Orsola de Castro e Carry Somers all’indomani della tragedia del Rana Plaza, cui ho aderito subito e di cui ho parlato spesso qui a eco-à-porter, presentandone manifesto e fanzine, tra cui la #2 che s’intitolava ‘Loved Clothes Last‘ ovvero una dichiarazione d’amore verso quei vestiti che durano una vita perché di ottimo materiale e finiture o perché li abbiamo riparati un sacco di volte o perché li abbiamo trasformati in qualcosa d’altro, ancora più unico e prezioso.

Quella fanzine è diventato un libro scritto da Orsola de Castro, con il titolo italiano di ‘I vestiti che ami vivono a lungo – Riparare, riadattare e rindossare i tuoi abiti è una scelta rivoluzionaria’ (‘Loved Clothes Last. How the Joy of Rewearing and Repairing Your Clothes Can Be a Revolutionary Act’ pubblicato da Penguin Books) ed esce oggi 11 marzo, edito da Corbaccio.

La copertina del libro

Una cosa che per me è cominciata più di 12 anni fa, sfocia in questo pezzo che scrivo dopo essermelo letteralmente bevuto, il libro, perché sono quasi 300 pagine che scorrono che è un piacere, con tante dritte, consigli ma anche aneddoti che girano intorno alla pratica del riuso di abbigliamento e accessori, intrecciati a dati e informazioni utili e insieme sconfortanti di quanto l’industria della moda, un business da 2400 miliardi di dollari, faccia male agli esseri umani e al Pianeta.

E se è vero che le grandi decisioni le prendono i governi, le organizzazioni, le corporation e così via, è altrettanto vero che a far spostare in modo non indifferente l’ago della bilancia sul cambiamento, siamo noi consumatori con le nostre scelte e gesti quotidiani che, in questo caso, hanno a che fare con un “incitamento a servirci dei nostri indumenti – e degli strumenti che li fanno durare più a lungo – come di un’armatura, compiendo il gesto rivoluzionario di ripararli”.

L’idea del libro di de Castro è quella di aprire il nostro armadio vedendo, oltre che guardando; quanti abiti e scarpe e borse abbiamo accumulato nel tempo, spesso solo per il piacere compulsivo di possedere qualcosa di nuovo, che poi, in realtà, abbiamo forse indossato una volta o magari nemmeno quella, che a volta ci troviamo ancora il cartellino attaccato? Quante volte abbiamo comprato per desiderio, che è diverso dall’amore, un concetto spiegato benissimo nel libro e a cui io stessa ho pensato mentre leggevo: come nelle nostre relazioni, c’è quella passione fulminante, magari tutta sesso, che poi si spegne così, com’è cominciata e poi c’è l’amore, la storia, quella che diventa parte della nostra vita e che vogliamo allungare il più possibile, viverne ogni momento, possederla, consumarla, tenendola con noi per sempre.

Succede lo stesso con gli abiti, no? “Intessiamo relazioni”, i fili non compongono solo i materiali dei nostri vestiti ma anche i nostri pensieri e possono essere, sono, memoria, quella di un giorno che non tornerà più, quella di una persona cara scomparsa, quella di un luogo rimasto nel cuore, quella di un amore mai dimenticato.

E allora, per non stare al gioco di un sistema “monopolistico, costrittivo e non inclusivo”, che ci impone un modello di consumismo bulimico, in cui regna il profitto ad ogni costo e in cui non ci sono né cura né rispetto, non solo per l’abito in sé ma anche per chi lo produce, opponiamo il gesto rivoluzionario e politico del rammendo o dello scambio o del regalo, per conservare e ridare vita a qualcosa che andrebbe altrimenti perso per sempre, riempiendo le discariche o finendo bruciato nell’inceneritore o, ancora, venduto in blocco alle ditte di smistamento o di riciclo del tessile che lo esportano, la maggior parte in Africa, “creando il caos nelle economie e nelle infrastrutture locali, e rendendosi in parte responsabili della dilagante scomparsa dell’artigianato che non può competere con i prezzi bassissimi e con il fatto che gli abiti occidentali sono più ambiti”.

Con la citazione dell’artista tessile Celia Pym “non vedo lo scopo dei rattoppi invisibili”, Orsola de Castro ci introduce alle più svariate tecniche di riparazione, dal rammendo, che “è esperienza, vita, tempo trascorso” alle toppe e alle decorazioni, dai patchwork in stile ‘boro’ (tipo di tessuto giapponese ricavato dagli avanzi dei kimono) agli orli lasciati volutamente sfilacciati perché “i danni dell’uso sono il simbolo di un cammino personale, le cicatrici della nostra quotidianità”.

E poi le istruzioni di lavaggio dei capi, imparare a capire i simboli e certi trucchi per lavare meno e meglio, la composizione dei materiali, pregi e difetti di ognuno, perché anche la conoscenza della materia prima, la sua provenienza, il suo percorso produttivo così come il suo fine vita, può aiutarci a capire come trattare i nostri vestiti per farli durare più a lungo.

Insomma, ogni pagina è una scoperta, con aneddoti anche divertenti come quelli su ‘il gioco con i jeans’ (ma vi lascio il piacere di leggervelo da voi) e momenti di riflessione, per esempio nel paragrafo dedicato alle condizioni disumane dei lavoratori del tessile, come quelli che hanno perso la vita o sono rimasti feriti nel crollo del Rana Plaza in Bangladesh:

“dovremmo vivere come tossiche per il nostro corpo e la nostra anima anche la negazione della dignità umana, la chimica che viene trasmessa (in senso sia fisico sia metaforico) nell’atto di cucire un indumento, le condizioni di quella manodopera”.

Ok, io mi fermo qua ma prima non posso fare a meno di ringraziare Orsola de Castro per avere avuto pietà di noi “impiastri’ non portati per i lavori manuali; io, nonostante abbia una favolosa mamma che sa fare di tutto di più (oltre che essere una vera pioniera dell’upcycling, le dovrei dedicare un articolo a parte!) e due sorelle, di cui una sarta e designer e l’altra brava come la mamma, sono davvero imbranata. Però delego e comunque, adesso, mi è venuta voglia di seguire un corso di cucito! E poi so scrivere, almeno credo, così posso parlare a tutti voi e diffondere l’idea rivoluzionaria di questo libro ovvero che “il capo di vestiario più sostenibile in assoluto è quello che possedete già” e quindi vale la pena fare il possibile per allungargli la vita. Che è anche la nostra.

Immagini courtesy Corbaccio

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